venerdì 21 maggio 2010

medicina sciamanica Star maiden circle



La Medicina delle Ruote si basa sulle Ruote di Medicina, o Chiavi Sciamaniche ed è l’osservazione delle analogie fra i cicli della natura e quelli dell’uomo.
Le Ruote sono tantissime, e ognuna è uno strumento dato dallo Sciamano al “paziente” per aiutarlo a raggiungere la guarigione. L’anima ha perso la sua connessione con la personalità e lo Sciamano, attraverso il “viaggio sciamanico”, cercherà di rimetterli in collegamento. Prima è opportuno, però, che il “malato” comprenda dove si trova e perché. Da ciò la guarigione è più radicale.
La conoscenza delle Ruote è la conoscenza della mappa per muoversi sul territorio e il territorio è l’individuo che, per certi versi, ha le stesse caratteristiche qualsiasi nome abbia e in qualsiasi posto si trovi. Ma la conoscenza di queste mappe non sostituisce assolutamente il lavoro dello Sciamano, o “uomo di Medicna” ( che non è la stessa cosa). Infatti egli opera con le energie che sono aldilà del piano umano, ma, per farlo, deve per forza avere l’autorizzazione del “paziente”. Che significa “consapevolezza” del territorio su cui ci si muoverà. E per percorrere il quale ha bisogno delle mappe che lo descrivono.
Ecco quindi che la Medicina delle Ruote sta nella consapevolezza che le Ruote di Medicina sono strumenti di viaggio e non Il Viaggio, sono Mappe del Territorio e non il Territorio.
La prima, o Ruota di Base, si chiama anche “Cerchio della Ragazza delle Stelle” .
Alcune Ruote: dell’Armonia, dei Tiranni, dell’Alchimia, delle Scuse, delle Simulazioni, dei Nemici del Guerriero, degli Attributi e delle Qualità, degli Sbagli, dei Creatori d’Immagine… e tante altre. Tutte basate sulla Ruota di base.

martedì 27 aprile 2010

Gesù adottava ai suoi tempi il doppio linguaggio, cioè un parlare in pubblico e un dialogare in privato, e diceva: " Non date ciò che è santo ai cani, e non gettate le vostre perle dinanzi ai porci, perché non le calpestino coi piedi, e rivoltandosi, non vi sbranino" (Matteo, VII, 6). In duemila anni molte cose sono mutate, per cui non crediamo di essere tutti, indistintamente tutti, dei cani o dei porci. " Per ogni cosa - dice l'Ecclesiaste (III, 1-7) - c'è il suo momento e di ogni faccenda viene la sua ora sotto il cielo... tempo di tacere e tempo di parlare".

Oggi è giunto il momento di parlare. Per lo meno secondo una certa misura. Parlare ad esempio di Ascesi integrale che è costituita da altre ascesi integrative che enumeriamo come segue:

1.
Ascesi fisiologica e psicosomatca, per il benessere fisico e il massimo equilibrio e rendimento del corpo, delle sue energie, allo scopo di farne un tempio dello spirito: premessa necessaria per preparare un buon karma (destino) in vista della risurrezione del corpo" sano e bello.
2.
Ascesi sociale, cioè lo sforzo, l'esercizio, l'azione metodica e progressiva per diventare un cittadino perfetto e farsi portavoce di una società nuova poggiata sulle colonne della carità, della non violenza, della reciproca assistenza economica, culturale e spirituale.
3.
Ascesi mistica, attraverso un'intensa vita devozionale e di dialogo con la Divinità; processo di trasmutazione interiore che porta all'estasi attiva, alla visione della Luce. È l'Opera al Bianco degli Alchimisti, l'entrata nelle Acque della Vita, il soggiorno dei Santi: preludio di un nuovo stato di superiore salita verso il Regno di Dio.
4.
Ascesi teurgica, o progredire con i riti che attirano l'amicizia e l'aiuto di Dio, del Cristo, della Madre, degli Spiriti Angelici aiutatori, Arcangelici e della Comunione Universale degli Adepti e dei Santi.
5.
Ascesi magica, sforzo e azione per dominare le forze della Natura.
6.
Ascesi cosmica, azione e avanzata verso una sintonia o cosmicizzazione con il tutto: astri, elementi, cieli, ecc.
7.
Ascesi sapienziale e iniziatica, o l'innalzarsi spirituale con la Conoscenza e speciali pratiche che conducono ad una trasmutazione interiore ed al salto di qualità. P- la via per uscire dalle Acque del mondo fenomenico, l'andare oltre allo stato mistico, è il cristico camminare sopra le Acque. È la veglia perenne e l'Opera al Rosso dell'Alchimista, cioè lo stato regale di chi è finalmente uscito dal gioco della creazione.

Occorre una iniziazione umana progressiva: un vero e proprio sacerdozio integrale, l'apertura della coscienza alle influenze spirituali dell'Iniziatore Cosmico che ritornerà per giudicare i vivi ed i morti. Prepariamoci in tempo utile, prima che l'Angelo della Morte venga a bussare alla nostra porta. Egli può arrivare in qualunque momento, ed in qualunque momento dobbiamo essere pronti per il grande viaggio. Sarebbe una grave sciagura non essere già diventati Figli dell'Altissimo, dotati di tutti i poteri dell'Adepto. La carità e la sapienza sono un grande patrimonio, ma non bastano per essere salvi. La traversata dell'oceano astrale implica l'incontro della "delinquenza astrale", le insidie del Guardiano della Soglia, lo stato di sonno e di sogno, la tormentosa oscillazione fra il risveglio e il riaddormentarsi in un mondo di fantasmi, di illusioni, poi il ripiombare in un nuovo corpo qui sulla terra. Solo con le Ascesi si guadagna l'autocoscienza, il ricordo delle vite passate, il cosciente rapporto con la Realtà, perché occorre prima di tutto mutare la coscienza, la qualità di questa coscienza, da bestiale in umana e da umana in superumana.

sabato 24 aprile 2010

l'era dell'acquario

Il globo terrestre è soggetto a diversi movimenti, quali la rotazione, la rivoluzione, la nutazione e la precessione: quest'ultima consiste nella rotazione dell'asse terrestre attorno alla perpendicolare all'eclittica, come accade a una trottola. A causa della precessione la posizione delle cosiddette stelle fisse rispetto alla terra cambia lentamente e, considerando appunto tali stelle come se fossero immote, si suppone che l'asse terrestre ritorni nella posizione originale ogni 25765 anni. Tale rotazione fa sì che gli equinozi vengano anticipati di circa 20 minuti l'anno. Nel cielo delle cosiddette stelle fisse sono disegnate le costellazioni zodiacali nelle quali il sole "entra" e ivi soggiorna ogni mese, mentre l'equinozio "permane" nel segno zodiacale per (25675/12 =) 2140 anni circa. C'è però da sottolineare che la durata di tale periodo è molto variabile: innanzi tutto l'ampiezza delle costellazioni può essere diversa l'una dall'altra, cosa che può comportare durate molto diverse da 2140 anni; inoltre nel corso dei millenni la struttura stessa delle costellazioni cambia: prima di tutto perché non si tratta realmente di stelle "fisse", cioè solidali coi movimenti del pianeta Terra, e poi perché la costellazione non è altro che un'immagine costruita sulla proiezione della posizione delle stelle che la compongono, non rappresentando quindi un reale gruppo stellare solidale. Comunque, tale periodo di circa 2140 anni è detto era astrologica, e viene chiamato col nome del segno zodiacale all'interno del quale è situata la posizione del sole all'equinozio di primavera. Se però durante l'anno la sequenza zodiacale è Ariete, Toro, Gemelli e così via fino a Pesci, le ere astrologiche seguono l'ordine inverso: quella attuale è l'era dei Pesci (che, grossomodo, va dall'anno 1 al 2140) e la prossima sarà non l'era dell'Ariete, bensì l'era dell'Acquario. L'uso dell'equinozio di primavera come posizione astronomica discriminante per l'era astrologica risale alla sua importanza simbolica nel ciclo annuale della natura: a partire dall'equinozio di primavera infatti il sole, sempre più alto sull'orizzonte, riscalda più efficacemente l'ambiente naturale e determina la "rinascita" primaverile della natura dopo la "morte" invernale. Nonostante il concetto di precessione degli equinozi sia stato scoperto da Ipparco solo nel II secolo a.C., l'equinozio di primavera rappresentava una festività già nell'antichità e la sequenza delle ere astrologiche permette di avanzare interpretazioni di vari miti antichi. La lettura in questa chiave, di eventi e opere passati, ricostruisce a suo modo la storia: la Bibbia, per esempio. Si può osservare come questa si sviluppi nello svolgersi di quattro ere: dalla storia di Mosè che scende dal Sinai e vede il suo popolo adorare un vitello si può individuare l'era del Toro, grosso modo collocata tra il 4300 a.C. e il 2150 a.C., mentre Mosè è colui che guida il passaggio (pesach) dalla vecchia era a quella nuova, l'era dell'Ariete. Alcune divinità collocabili intorno a quest'epoca, infatti son raffigurate nell'atto di uccidere un toro (ad esempio Mitra).Gesù è invece colui che guida l'umanità attraverso l'era attuale, l'era dei Pesci. Il suo simbolo è tra l'altro il pesce, i suoi amici erano pescatori, lui si diceva "pescatore d'uomini" e sfama migliaia di persone con due pesci.Gesù, in un racconto dei Vangeli (Lc 22:10), per preparare la Pasqua (che significa "passaggio") dice ai suoi discepoli "Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua", cioè l'Aquario, la nuova era (secondo questa esegesi, ovviamente), che inizierà nel 2150, per alcuni, o nel 2012, per altri. "Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente." (aeon, nell'originale greco) è la traduzione delle parole di Gesù presentata nell'ultimo versetto del vangelo di Matteo (vedi ultimo versetto del vangelo di Matteo (Mt 28, 20) che presenta una versione diversa rispetto agli altri evangelisti). L'era astrologica secondo Steiner non inizia con l'ingresso dell'equinozio in una costellazione, ma a metà del suo percorso, e quindi l'era dei Pesci, per esempio, l'era attuale, è in realtà iniziata intorno al 1400, mentre l'era dell'Aquario è ben lungi dall'essere prossima (circa nel 3500). L'attesa di una nuova era inizia comunque precocemente, questo spiegherebbe l'operato di molti profeti come Mosè e Gesù ben prima del reale inizio dell'era spirituale profetizzata. L'attesa della "new age" in nome dell'Aquario è quindi iniziata intorno agli anni venti-trenta del secolo scorso.Secondo Steiner ogni era è caratterizzata da un popolo guida: per esempio l'era dell'Ariete si è svolta sotto l'egida della cultura greco-romana, quella dei Pesci ha come popolazione dominante quella anglo-sassone, mentre l'era dell'Acquario sarà guidata dagli slavi.Secondo l'astrologia, ogni era dura 2160 anni senza distinzione di durata tra le varie costellazioni, e il completamento del giro dello Zodiaco attraverso i cicli cosmici si compie in 25920 anni, poiché tradizionalmente non si considera la costellazione dell'Ofiuco. A metà di questo percorso, ossia ogni 12960 anni, si verifica un'inversione dei poli magnetici terrestri. Le cosiddette ere astrologiche quindi avranno queste caratteristiche:

Costellazione Durata
Vergine 3160 anni
Leone 2570 anni
Cancro 1440 anni
Gemelli 2000 anni
Toro 2620 anni
Ariete 1770 anni
Pesci 2670 anni
Acquario 1710 anni
Capricorno 2010 anni
Sagittario 2380 anni
Ofiuco 1340 anni
Scorpione 480 anni
Bilancia 1650 anni
In base a quanto sopra, l'era dell'Aquario inizierà nel 2597.

domenica 11 aprile 2010

il crepuscolo degli dei

o ragnarok: nome composto da ragna, il genitivo plurale di regin (dèi-poteri organizzati) e rök (fato-destino-meraviglie), poi confuso con røkkr (crepuscolo).
Il termine probabilmente più antico è ragnarök, che significa "fato degli dèi". Ragnarøkkr significa invece "crepuscolo degli dèi", ed è quest'ultima la denominazione più celebre del Ragnarök, grazie anche all'opera di Richard Wagner (Götterdämmerung). Gli storici hanno invece corretto quest'ultima traduzione, soprattutto il francese Claude Lecouteux, affermando che il significato vero e proprio sia invece "Giudizio Delle Potenze".
Il Ragnarök ci è noto principalmente da tre fonti: Völuspá (Profezia della veggente); Vafþrúðnismál; Gylfaginning (Inganno di Gylfi)
Il poema Völuspá -che è interamente conservato nel Codex Regius (del 1270 circa) e nei manoscritti dell'Hauksbók (del 1334 circa), mentre buone parti di esso vengono citate nell'Edda in prosa di Snorri Sturluson (del 1220 circa)- si apre con la veggente che dice ai figli di Heimdallr (che sono esseri umani) di fare silenzio. Chiede quindi ad Odino se voglia che lei declami le antiche tradizioni e leggende. Afferma di ricordare ancora i giganti che molto tempo prima l'hanno allevata.
Inizia allora a narrare il Mito della Creazione; il mondo era vuoto finché i figli di Borr fecero emergere la terra dalle acque del mare. Gli Æsir allora misero ordine nel cosmo, trovando un posto per il sole, la luna e le stelle e dando così inizio al ciclo del giorno e della notte. Seguì quindi un'epoca meravigliosa, durante la quale gli Æsir disponevano di oro in grande abbondanza, e costruivano con gioia i templi e ogni altra cosa. Ma poi dallo Jötunheimr arrivarono tre giovani e potenti gigantesse e l'età dell'oro ebbe così fine. Gli Æsir allora crearono i Nani Norvegesi, i più potenti dei quali sono Mótsognir e Durinn.
A questo punto, dopo 10 delle 66 stanze di cui è composto il poema, iniziano sei stanze che contengono semplicemente un elenco di nomi di Nani.
Dopo lo Dvergatal si racconta la creazione di Askr ed Embla, il primo uomo e la prima donna, e si descrive lo Yggdrasill, l'albero del mondo. La veggente ricorda allora gli eventi che condussero alla prima guerra di tutti i tempi e come si svolse la lotta tra gli Æsir e i Vanir.
La veggente rivela ad Odino di conoscere alcuni dei suoi segreti, e sa che cosa egli abbia sacrificato per ricercare il sapere. Gli dice che sa di Mimir e dove sia finito il suo occhio, e come lui l'abbia ceduto in cambio dell'onniscienza. Continuamente gli chiede se voglia ascoltare oltre.
Lo avverte quindi che seguirà la narrazione di terribili avvenimenti. L'assassinio di Baldr, il migliore e il più giusto degli dèi. La ribellione di Loki, e di altri. Come infine tutti gli déi periranno quando il fuoco e la violenza delle acque travolgeranno il cielo e la terra mentre gli déi combattono la loro ultima battaglia contro i loro nemici. Questa è la sua profezia, questo è il destino degli déi: il Ragnarök. Descrive i richiami alla battaglia e le sofferenze personali di ogni dio. Narra la tragica fine di molti degli déi e come Odino stesso venga ucciso.
Alla fine, dalle ceneri dei morti e dalla distruzione, risorgerà un mondo meraviglioso dove Baldr vivrà nuovamente, un mondo nuovo nel quale la terra darà messi in abbondanza senza nemmeno bisogno di essere seminata.

Secondo la leggenda spariranno Sól (il Sole) e Máni (la Luna): i due lupi (Sköll e Hati) che, nel corso del tempo, perennemente inseguivano i due astri finalmente li raggiungeranno, divorandoli, privando il mondo della luce naturale. Anche le stelle si spegneranno.
Yggdrasill, l'albero cosmico, si scuoterà, e tutti i confini saranno sciolti: terremoti, alluvioni e catastrofi naturali.
Le creature del caos attaccheranno il mondo: Fenrir il lupo verrà liberato dalla sua catena, mentre il Miðgarðsormr emergerà dalle profondità delle acque. La nave infernale Naglfar leverà le ancore per trasportare le potenze della distruzione alla battaglia, al timone il dio Loki.
I misteriosi Múspellsmegir cavalcheranno su Bifröst, il ponte dell'arcobaleno, facendolo crollare. Heimdallr, il bianco dio guardiano, soffierà nel suo corno, il Gjallarhorn, per chiamare allo scontro finale Odino, le altre divinità, e i guerrieri del Valhalla, gli einherjar.
Nel grande combattimento finale, che avverrà nella pianura di Vígríðr, ogni divinità si scontrerà con la propria nemesi, in una distruzione reciproca. Il lupo Fenrir divorerà Odino, che quindi sarà vendicato da suo figlio Víðarr. Thor e il Miðgarðsormr si uccideranno a vicenda, e così Týr e il cane infernale Garmr. Surtr abbatterà Freyr.
L'ultimo duello sarà tra Heimdallr e Loki, tra i quali la spunterà il primo, quindi il gigante del fuoco Surtr, proveniente da Múspellsheimr, darà fuoco al mondo con la sua spada fiammeggiante.
Di seguito, dalle ceneri, il mondo risorgerà. I figli di Odino, Víðarr e Váli, e i figli di Thor, Móði e Magni, erediteranno i poteri dei padri. Baldr, il dio della speranza e Höðr suo fratello, torneranno da Hel, il regno della morte. Troveranno, nell'erba dei nuovi prati, le pedine degli scacchi con cui giocavano gli dèi scomparsi. La stirpe umana verrà rigenerata da una nuova coppia originaria, Líf e Lífþrasir, sopravvissuti nascondendosi nel bosco di Hoddmímir o nel frassino Yggdrasill a seconda dei culti.
La rinascita del mondo è tuttavia adombrata dal volo, alto nel cielo, di Níðhöggr, il serpe di Niðafjoll, misteriosa creatura (che ricorda il serpente piuymato) tra le cui piume porterà dei cadaveri.L'assenza di paralleli corrispettivi escatologici nelle altre mitologie europee, cioè la mancanza di narrazioni sulla fine del mondo, ad esempio, in ambiente greco o romano, ha portato diversi studiosi a ipotizzare influssi più o meno decisi, nel Ragnarök, dell'immaginario cristiano, in particolare dall'Apocalisse di Giovanni. L'ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che la mitologia norrena sia stata codificata quasi interamente in seguito all'arrivo del Cristianesimo nell'Europa settentrionale. Tuttavia, anche e proprio per questo motivo, l'ipotesi rimane tale e priva di una qualunque verifica.
Da parte sua, Georges Dumézil, studioso francese dei miti, ha messo in luce le forti somiglianze tra il Ragnarök e, nella mitologia hindu, la battaglia tra Pāndava e Kaurava, così com'è narrata nel Mahābhārata. Così come il Ragnarök sarebbe posto nel futuro, l'analoga battaglia epocale del Mahābhārata si trova nel passato.
È forse dunque possibile come corrispettivo del Ragnarök in area mediterranea la gigantomachia o la titanomachia, che vedono contrapposti gli dèi olimpici guidati da Zeus contro creature deformi e caotiche.

lunedì 5 aprile 2010

la vittoria della luce sul buio


Ciascuno di noi ha iniziato il proprio cammino milioni di anni fa, come attestano le scoperte scientifiche maturate soprattutto in questo ultimo secolo.
Osservando attentamente la natura nei suoi tre regni: minerale, vegetale, animale, ciò che maggiormente risalta è la scala evolutiva e ininterrotta che collega tutti gli esseri: tutti vivono, si nutrono e respirano allo stesso modo e i ritmi naturali sono uniformi e costanti in tutti e quattro gli elementi semplici che costituiscono il fondamento della vita delle cose (terra, acqua, aria e fuoco).
Tutto si evolve, si trasforma, niente si distrugge. Anche noi, esseri umani, abbiamo una composizione identica alle altre creature viventi e obbediamo a una ritmica naturale! Ma che cosa, dunque, ci distingue o ci differenzia?
Due cose: il pensiero creatore e la parola realizzatrice.
Cartesio diceva: io penso, quindi sono. Ma chi parla dentro di noi, chi ci fa agire?
Ognuno affronta ogni giorno delle prove, ognuno giorno dopo giorno acquisisce delle certezze da memorizzare come su di un computer, sul nastro magnetico dell’anima, per tirarle poi fuori sul canale privilegiato degli eventi, ogni qual volta se ne presenti la necessità.
Ciò fa presupporre una memoria costante ed eterna che agisce dalle profondità del nostro essere. Una memoria che richiede una verifica costante, finché il suo meccanismo non si perfeziona, creandosi in noi la consapevole certezza del vero.
Perché questo meccanismo di memoria e coscienza della verità si perfezioni, deve attuarsi il distacco dalle passioni che ci attanagliano, frastornandoci nella quotidiana lotta dell’esistenza.
Per quanto si proceda a tentoni, ciò a cui si mira è la costituzione della propria identità attraverso il contatto con il proprio «IO» occulto, unica possibilità per eternizzarsi.
Ma nel tessere e ritessere la tela del nostro eterno cammino non dobbiamo credere di essere soli e avulsi dal contesto universale!
Oggi ancor più di ieri si cerca anche nel sociale di rivalutare il concetto di universalità, di uno spazio umano senza frontiere e confini. Ciò comporta l’abbattimento degli egoismi separatori e la rivalutazione del concetto di «divinità» dell’essere che, collocato in una consequenzialità cronologica e spaziale, parte dal divino e, attraverso il ciclico manifestarsi della vita, al divino delle sue origini ritorna.
Filo conduttore di questo percorso eterno è la vita che quanto più è vissuta senza legami e interessi egoistici, tanto più consente all’essere la libertà di perseguire fino in fondo il fine ultimo del suo ritorno al divino.
È questo infatti il suo Sommo Bene, come il bene relativo degli esseri è vivere nell’armonia e nel rispetto dei propri simili, in quell’amore fraterno che, quale forza coesiva e aggregante si può sintetizzare nel detto latino Similis cum similibus faciliter congregantur e porsi alla base del concetto di fratellanza lottando primariamente con sé stessi per il trionfo del bene in ogni sua manifestazione, e coltivandolo dentro e fuori di sé nei pensieri, nelle parole e nelle opere, perché possa dare i suoi frutti. Frutti che possono tardare, ma mai venire a mancare!
Attuare il bene con fede, tenacia e costanza, con amore disinteressato, facendo della propria vita l’esempio continuo delle potenzialità benefiche della natura umana, e dell’ineluttabilità di un cammino in ascesa per tutti gli esseri che tendono alla Verità, è stato questo il fine, questa la virtù cui, in qualità di esseri senzienti e consapevoli, non dovremmo nè potremmo mai del tutto rinunciare.
In questo consiste il vero culto della Vita, questa è la prima, piccola vittoria sulla morte, questa dovrà essere la proiezione imperitura nel principio di vita nova nel Bene è l’eternità dell’essere! Non è facile! Molti cadono sotto il fardello dei limiti umani, altri pur inciampando restano in piedi, altri ancora si fermano a segnare il passo non riuscendo a spiccare il volo, alcuni, rari, si trasformano e irradiano come tramite divino l’aurea benefica d’amore e di salute.


Le teorie astrologiche kremmerziane attingono ad una tradizione codificata da oltre 6.000 anni, e poggiano su schemi astrologici arcaici, obbedienti a leggi fisiche e naturali di cui nei millenni si sono perse le chiavi di lettura.
Le caste sacerdotali, artefici di questa codificazione, hanno vulgato a loro uso e consumo le teorie e le pratiche sull’influenza degli astri nei destini umani, ammannendole ai popoli per lo più sotto forma di rivelazione divina. Infatti scrive Kremmerz: ... gli astri, sole, luna e stelle, nel sistema religioso astronomico degli antichi personificavano le deità coi loro attributi.
L’interesse babilonese per le stelle risale alla fine del III millennio a.C. e si sviluppò come matematica astronomica intorno al 1200 a.C. anche se, i primi modelli matematici per calcolare con una certa precisione i fenomeni celesti, comparvero solo alla fine del VI secolo a.C.
Oggi si fa appunto risalire l’origine dell’astrologia al III millennio e si ritiene che le predizioni astrologiche babilonesi (tavolette scritte in caratteri cuneiformi ritrovate nel sottosuolo dell’antica Ninive), per la straordinaria semplicità della lingua, derivino da analoghe predizioni in lingua sumerica. Dalla Mesopotamia la cultura astronomica si diffuse rapidamente in Egitto, in Grecia e in India, arrivando forse anche in Cina.Si è soliti, comunque, considerare la prima metà del I millennio il periodo cruciale dello sviluppo dell’astrologia a Babilonia, quando gli osservatori e interpreti di presagi celesti, chiamati TUPSAR ENUMA ANU ENLIL, erano esperti in ogni campo della divinazione, guidati dal concetto (come sostieneM. Jostrow jr. in Die religion Babyloniens und Assyriens) che il cielo e la terra corrispondono l’uno all’altra come l’originale con la copia.. Cielo e terra costituivano dunque un’unità indissolubile. Questa concezione, la più antica, cambierà nelle culture successive, laddove l’astrologia classica ridurrà il cielo e la terra come coppia di opposti in un rapporto di causa-effetto.
L’idea della causalità dei cieli s’incrementò con lo sviluppo della matematica astronomica, intorno al VI secolo a.C. che fece prevalere l’interesse per i fenomeni celesti sulle altre tecniche divinatorie (tra cui ad esempio l’estispicina).
Pur scarseggiando la documentazione sulla diffusione dei presagi celesti babilonesi nel mondo ellenistico, è pur tuttavia certo il ruolo di intermediazione svolto dall’Egitto verso il mondo greco-romano. Frammenti di papiri, come quello studiato da Neugebauer e relativo ad effemeridi lunari, dimostrano che, documenti dell’astronomia babilonese del periodo seleucide o dell’ultimo periodo achemenide, potevano essere letti in lingua greca nell’Egitto romano.
Ma nonostante la pratica egiziana dell’utilizzo di date stelle per la determinazione del tempo, già dall’inizio del II millennio a.C. in Egitto, in base ai documenti tramandati, l’astronomia non sembra aver fatto progressi finché non si osserva in essa una chiara influenza babilonese.
Secondo R.A. Parker (A Vienna Demotic Papyrus Eclipse and Lunar-Omina ) il testo più antico della letteratura astrologica egiziana, risale al regno di Dario I (tra il 521 e il 486 a.C.), quando l’Egitto divenne una provincia persiana. Si tratta di una raccolta di pronostici che riguardano l’Egitto e i paesi vicini, fondata sull’osservazione delle eclissi. L’origine babilonese di questi pronostici, seppure adattati alle condizioni egiziane, appare dall’identità del modello egizio con le sezioni solari e lunari dell’Enuma Anu Enlil, (serie di circa 70 tavolette, redatta intorno al 900 a.C. contenente migliaia di pronostici di natura sia metereologica, sia siderale) e, inoltre, dall’uso di un calendario unificato egiziano e babilonese. L’Egitto sembra comunque aver svolto un ruolo originale nell’elaborazione della tecnica astrologica, in particolare nel III secolo a.C. sotto i Tolomei, come vedremo in seguito.
Giuliano Kremmerz, nelle Lunazioni, menziona un ciclo caldeo anch’esso basato sull’osservazione delle eclissi lunari, precisando, secondo le annotazioni dell’Anonimo compilatore (Izar – De Servis, Suo Maestro) che... in quella regione astronomico-magica (la Caldea), le eclissi erano tenute in grande considerazione, poiché la luna perdeva molto della sua forza, o ne acquistava maggiore, secondo le ore e la posizione del sole.
Se si considera poi che il Kremmerz definisce i Caldei una casta sacerdotale di origine atlantidea alla cui sapienza e scienza gli Egizi attinsero, si può dedurre la derivazione sia dell’astrologia babilonese sia dell’egizia, da questa misteriosa, sapiente e antichissima scienza di origine divina.
Tenne a precisare Kremmerz che... Il sacerdozio egiziano, come il caldaico – prese l’analogia dei tre mondi (il visibile o natura, l’astrale o sotterraneo, occulto regno della psiche e dell’inconscio, e il divino o planisfero celeste e stellato) e lo riprodusse nell’esoterismo del suo tempio, pigliando a prestito dall’astronomia, dalla geografia e dalla storia naturale, tutto l’artificio della sua simbologia e tecnica religiosa.
Numerose le testimonianze circa l’importanza dell’astrologia egizia. Secondo Diodoro Siculo: Non c’è forse nessun altro paese in cui le posizioni e i movimenti degli astri siano osservati con più precisione che in Egitto. Da un numero incredibile di anni essi tengono dei registri dove segnano le loro osservazioni. Vi si trova notizia dei movimenti dei pianeti con le rispettive posizioni e rivoluzioni; inoltre sono registrati i rapporti di ogni pianeta con la nascita degli animali e infine gli astri dagli influssi buoni o cattivi ... Qualcuno addirittura sostiene che i Caldei di Babilonia, così famosi per la loro astrologia, siano una colonia egiziana e che siano stati istruiti in questa scienza dai sacerdoti d’Egitto ... (e inoltre) ... I tebani d’Egitto si considerano gli uomini più antichi e sostengono che la filosofia e l’astrologia esatta sono state inventate a Tebe ...(I, LXXXXI-L).
Così come lo stesso Kremmerz precisa che ... le Lunazioni, i libri non ancora profanati di Izar, sono commentati dal suo discepolo B-ANUR di Tebe.
Nel III secolo a.C. la politica culturale dei Tolomei radunò in Alessandria matematici, medici e filosofi. E’ in quest’epoca che si delinea in Egitto una divinazione astrale, denominata apotelesmatica, che usa i metodi della scienza ed è scritta in greco: gli influssi delle rotazioni dei cieli producono quelle cause che determinano gli eventi terreni.
La nascita dell’apotelesmatica segna un punto cruciale dell’arte astrologica, una fusione di elementi greci (nuovo sapere astronomico, filosofia della natura) e babilonesi (la tradizione degli omina = eventi eccezionali o mostruosi) con alcuni caratteri del misticismo egiziano. Ciò produsse (come sostiene D. Pingree in Hellenophilia versus the History of Science ) lo sforzo supremo compiuto nell’antichità di creare in forma rigorosa un modello causativo del kosmos, un modello in cui le rotazioni eternamente reiterate dei corpi celesti unitamente alle loro reciproche relazioni ... producono tutti i cambiamenti nel mondo sublunare..
Inoltre fra i testi ermetici del I secolo a.C., che in realtà si rifanno a testi più antichi, quelli di natura astrologica contemplano anche la botanica e la medicina.
Furono dunque i sacerdoti-astrologi egiziani, educati nella cultura ellenistica, a coniare il termine iatromatematica, a unire cioè la medicina alla previsione astronomica, così che l’astrologia esce definitivamente dalla tradizione ieratica e si diffonde come scienza, unita all’alchimia, alla medicina astrologica, alla magia, cioè a quelle discipline che terranno campo fino al Rinascimento. E’ in questo periodo che viene riconosciuta una tradizione sacrale rimontante a personaggi remoti e semidivini (Thoth, Ermete Trismegisto), come l’originaria depositaria della sapienza e della scienza astrologica. Successivamente, infatti, la letteratura astrologica greca (nata nel I secolo a.C.) si riannoderà all’antica conoscenza risalente ai saggi egizi.
Testo fondamentale per la disciplina astrologica fu nel II secolo a.C. l’opera di Claudio Tolomeo (nota 1) il Tetrabiblo o Quadripartito, prodotto del progresso dell’astrologia e della matematica nella scuola di Alessandria. Con Tolomeo però inizia l’allontanamento dall’astrologia egizia antica o dal metodo antico. Il procedimento antico egizio, egli dice, è troppo difficile e infinito e bisogna quindi convertire le configurazioni astronomiche che sono matematiche in configurazioni fisiche, ovvero di natura. Convertire dunque la scrittura celeste in forma terrena, osservando direttamente la natura fisica: ecco le basi della matematica applicata all’indagine della natura. E continua dal Tetrabiblos ... assai a proposito ci avvicineremo a quella dottrina che ci insegna ad evitare i malanni ... poiché nonostante non possa stornare tutto, essa effettivamente può spingersi davanti agli accidenti e respingerne qualcuno. Gli egizi che hanno maggiormente sviluppato tale scienza, riconoscendo tale verità, unirono sempre la medicina alle predizioni astrologiche e non ci avrebbero mai lasciato tanti antidoti e mezzi per stornare i mali, presenti o futuri, comuni o particolari, se fossero stati dell’avviso che non li si può deviare o evitare. Inoltre essi unirono alle predizioni dei rimedi che, con l’aiuto della natura, producono degli effetti contrari ad esse, donando a questi rimedi il secondo rango dopo la causa determinante. Essi chiamano la dottrina di tali cose Iatromatematica, giacché con la contemplazione degli astri, essi possono giungere a giudicare dei temperamenti, degli avvenimenti futuri e delle esatte cause di questi; infatti, senza tale conoscenza i rimedi usati in medicina sbagliano sovente, visto che gli stessi non si adattano ad ogni tipo di corpo o di malattia; d’altra parte, dall’arte medica essi traggono i mezzi per stornare le malattie future e, per quelle presenti, dei rimedi che, per quanto possibile, non siano fallaci, aiutandosi in questo con cose che sono simili o contrarie ai morbi.
Sesto Empirico, contemporaneo di Tolomeo, allude anch’egli al metodo egizio-caldeo tradotto nella Iatromatematica e, dal Matheseos (VIII, IV, 22,2) di Firmico, apprendiamo che questa scienza contemplava il metodo di cura allopatico: ... poiché una natura è vinta da un’alta natura, poiché sovente un dio trionfa su un altro dio, da questa opposizione di nature e di potenze egli trasse il rimedio a ogni male.
Ma anche l’omeopatico, secondo la Iatromatematica di Ermete Trismegisto, che afferma: ... la malattia proviene non già da una molestia esercitata sull’organo dall’astro a questo organo preposto, ma dal fatto che questo astro medesimo, essendo da un altro afflitto, comunica debolezza e malessere al membro che dispone (legge di similitudine o dei simili).
In ogni caso la terapia, basata sulla relazione di antipatie e di simpatie fra l’astro, l’organo e il rimedio, stando a quest’antico metodo, poteva essere allopatica o omeopatica. Un frammento della Iatromatematica di Ermete Trismegisto ad Ammone egizio , (in Phisici et Medici graeci minores) la cui antichità è riferita da Pancario nel III sec. d.C. e da Serapione nel I sec. a.C., così infatti afferma: dicono i sapienti, o Ammone, che l’uomo è un cosmo perché è fatto, nella sua costituzione, a simiglianza del cosmo ... Occorre dunque che chi professa l’arte medica osservi i moti del cielo e delle stelle con le loro mutue disposizioni, giacché nulla delle cose che accadono agli uomini avviene senza la loro commistione ... E bisogna che il medico abbia giusta conoscenza del decubito del malato, in quale ora accade.A tal proposito scrive Kremmerz che ... dalla Unità micro-macrocosmo ... nella tradizione egizia trassero origine l’astrologia e le influenze astrali nelle ipotesi del Tolom, il collegio sacerdotale che osservava le influenze degli astri ... così si stabiliscono le leggi della magia divinatoria ... Il fondamento astrologico caldeo concepisce il cielo visibile come legge della vita universale ... e l’unità è la chiave di ogni analogia ... se il discepolo non intende ciò, non intenderà mai cosa è l’astrologia pei maghi e dirà dell’astrologia come certi professori pagati dallo Stato ... che essa è una superstizione, e non comprenderà lo spirito dell’alchimia, e le leggi trasmutatorie della vita nel macro e nel microcosmo!A Roma l’astrologia, inizialmente combattuta dal Senato e dagli aruspici (numerosi sono gli editti che interdicono l’esercizio dell’arte caldea), prese il sopravvento col diffondersi dei culti orientali. Le forme di divinazione erano numerose e poggiavano su presupposti diversi. La classificazione più nota era quella di divinazione naturale ed artificiale. Nella prima si aveva un intervento diretto della divinità che si manifestava all’uomo in condizioni particolari o nel sogno (vedi ad esempio le voci profetiche dei Fauni o i vates che cantavano le loro profezie); la seconda, in quanto ars, prevedeva una tecnica, di pertinenza di un interprete, grazie alla quale questi riceveva un segno dalla divinità che doveva appunto interpretare. La divinazione artificiale includeva l’astrologia che, per i Latini, designò sempre anche l’astronomia.
Nella Roma decadente degli ultimi imperatori pagani l’abuso dell’astrologia conobbe grande successo, beneficiando di tutte le speculazioni caldee ed egizie che l’ellenismo aveva diffuso e, nell’ambito della antica mitologia greco-latina, gli astri furono personificati, ricevendo nomi e caratteristiche degli dei olimpici.
Nel mondo pagano gli astrologi erano detti astronomi, matematici, caldei, babilonesi ecc. e come Kremmerz riporta ... all’epoca della decadenza del mondo latino Roma era invasa da maghi ed astrologhi, beninteso col beneficio dell’inventario, ma tali che davano la fisionomia popolare alla magia dei filtri di piazza e terapeutica, nonché all’astrologia divinatoria e giudiziaria. Si trattava di arti divinatorie che non avevano niente a che fare con le prime manifestazioni augurali semplici dei sacerdoti di Stato. I Caldei, si chiamavano così con un nome comune, tutti quelli che si occupavano di magia, di medicina e di astrologia, fiorivano a centinaia nella capitale imperiale, dove la promiscuità delle razze permetteva il rapido crescere e il dilagare di avventurieri di ogni colore.
Il Cristianesimo si oppose strenuamente all’arte caldea che trovò, invece, terra fertile nell’Islam, sia perché qui era radicato il culto stellare dell’antico paganesimo, sia per l’assoluto determinismo insegnato da Maometto. Inoltre la tendenza positiva e illuministica della filosofia araba, agganciata ad Averroè, era ben disposta verso di essa.
In Italia, nel X secolo, appaiono le prime traduzioni dall’arabo, che diverranno copiose nel XII secolo. L’influenza dell’astrologia araba fu straordinaria, soprattutto se si considera che dal VI al X secolo la cultura ufficiale aveva avuto come fonti principali le sole opere di Macrobio e di Marziano Capella, più vicine alla retorica che non alla scienza.
Ma fino al tardo Rinascimento si mantennero in vita, con qualche lieve cambiamento, le principali forme di astrologia coltivate dai Greci sin dal I secolo, e cioè il sistema delle interrogazioni per soddisfare le esigenze della vita quotidiana; il sistema delle elezioni per determinare il momento propizio ad ogni azione; il sistema della natività.
Il nome di Ermete Trismegisto, ben noto durante il Medioevo, era associato all’alchimia e alla magia, ma in particolare alle immagini magiche o talismani, collegati ai decani astrologici, i quali erano considerati pericolosi demoni, tanto che alcuni testi attribuiti ad Ermete furono condannati da Alberto Magno perché intrisi di magia diabolica e, perciò, vietati.
Inoltre la censura agostiniana verso il culto demonico descritto nell’Asclepius (nota 2), pesò gravemente su quest’opera. Comunque la maggior parte degli scrittori medioevali interessati alla filosofia naturale trattarono Ermete con grande rispetto: così Bacone che lo considerava il padre dei filosofi. Il Picatrix (nota 3), benchè non attribuito ad Ermete, lo ricorda e si può ritenere che abbia costituito una delle fonti di Ficino in materia di talismani e di magia simpatica. E’ infatti un compiuto manuale pratico di magia talismanica utile alla cura delle malattie, al prolungamento della vita, alla vittoria sui propri nemici, alla conquista dell’amore ecc. Per di più la teoria della prisca theologia, cioè la pietà ed antichità di Ermete Trismegisto, priscus theologus e mago, offriva un’opportuna giustificazione alla magia rinascimentale. Lattanzio aveva poi considerato Ermete come il profeta del Figlio di Dio, di modo che la sua immagine di profeta pagano, si trova ancor oggi raffigurata sul pavimento a mosaico del Duomo di Siena, attorniata dalle Sibille classiche, anch’esse transitate nel Cristianesimo.
La letteratura ermetica dell’epoca medioevale si può dividere in due filoni: i trattati filosofici, e quelli astrologici, alchimistici e magici, ossia i pratici, una cui buona parte è attribuita ad Ermete Trismegisto. Ma poiché anche i criteri della magia simpatica si imperniano attorno alle continue influenze astrali sulla terra, gli Hermetica filosofici si possono collocare nella stessa corrente di pensiero degli Hermetica pratici, cioè, come già detto, dei trattati di astrologia, di alchimia e degli elenchi di animali, piante e pietre raggruppati a seconda delle loro occulte simpatie con le stelle.
Nell’astrologia ellenistica, base degli Hermetica filosofici, ed erede dell’astrologia egiziana, ruolo fondamentale avevano avuto i 36 decani o 36 dei governatori delle divisioni decimali dei 360 gradi del cerchio zodiacale. Gli Egiziani avevano divinizzato il tempo, in modo che ciascuna ora del giorno e della notte aveva un proprio dio e come riporta Erodoto (II, LXXX II) ... essi sono autori di parecchie trovate originali, come quella di designare a quale dio è consacrato ogni giorno e ogni mese dell’anno, o di determinare in base al giorno di nascita gli avvenimenti della vita, le circostanze della morte e le qualità di un uomo. I decani, chiamati così in età ellenistica, erano di fatto divinità sideree egiziane del tempo, assimilate dall’astrologia poi detta caldea, e collegate allo zodiaco. Avevano un proprio e preciso significato in quanto Oroscopi che presiedevano alle vite nate nei periodi di tempo da essi controllati, ed erano congiunti ai pianeti, come giustamente rileva la Yates.
Dalla risposta di Origene a Celso (in Contra Celsum - VIII) emerge chiaramente la grande influenza esercitata dall’antico Egitto sul Neoplatonismo, riaffiorato al tempo della reazione pagana al cristianesimo e l’antichità dell’importanza attribuita ai decani: ... essi (gli egizi) dicono che il corpo umano è stato posto sotto il controllo di 36 demoni, o specie particolari di divinità eteree ... A ciascun demone compete una parte diversa. Essi conoscono i nomi di questi demoni nel loro dialetto locale: Chnoumen, ... Knat, Sikat, Biou, Erou, Rhamanoor (che s’incontra nelle Lunazioni) e Rheianoor ... invocandoli essi guariscono le sofferenze delle varie parti del corpo ... (nota 4)
Ritornando al Medioevo, in Italia era dunque diffusissima la pratica astrologica. Importanti erano lo studio padovano, con Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli, e la corte di Federico II con Michele Scoto, che professavano un astrologismo mitigato, ove gli astri sono i segni degli avvenimenti.
Giuliano Kremmerz, di questa lunga parentesi storica sottolinea che: ... caduto l’impero (romano) durante il periodo barbarico, col cristianesimo si innestavano nelle plebi le superstizioni inesatte delle antiche credenze e il medioevo ci appare con un corteggio di ciarlatani ed empirici che trovavano pane e gonzi dovunque. Ogni signorotto ... possedeva l’astrologo e fino ai secoli XVII e XVIII l’astrologia empirica era stabilita sui canoni delle vecchie superstizioni – L’Italia prima e l’Europa tutta – ebbero perfino dei professori di astrologia di grido ... quella che io derido è l’astrologia empirica dei sistemi pseudo-astronomici, come se ne fabbricano nell’America del Nord e fuori Italia, nella nostra Europa, con temi figurati ad imitazione dell’astrologia medievale mal compresa e male imitata. Nel Commentarium del 1911 ho ricordato un libro del Cinquecento contro l’astrologia superstiziosa ... libro di G. Montanari di Modena, professore all’Università di Bologna e poi di Padova che dimostra profanamente come il buon senso della nostra stirpe non si è lasciato mai portar per il naso dai mistici vaniloqui di altra gente ... E di astrologia e del primato italiano anche in questa ...L’Umanesimo e il Rinascimento tennero in gran conto l’astrologia che deteneva un ruolo primario nell’ambito della Scienza della Natura poiché trattava dell’intreccio continuo di influssi fra l’essere umano e la natura. Inoltre, se il Medioevo era erede dell’avversione propria dei Greci ad applicare la conoscenza ai fini operativi, e pertanto la teologia medioevale, come giustamente analizza la Yates (in Giordano Bruno e la tradizione ermetica) costituiva il coronamento della filosofia, e la contemplazione il vero fine dell’esistenza umana, per cui qualunque impulso operativo non poteva che essere ispirato dal demonio, nei secoli successivi l’orientamento mutò, e l’attività pratica acquistò straordinaria importanza. Fu ritenuto conforme alla volontà di Dio che l’uomo potesse esercitare praticamente i suoi poteri e nacque perciò un acceso dibattito sulla necessità di una pratica della scienza astrologica. Ciò può evincersi, infatti, da questo brano di Giovanni Pontano, insigne umanista del Regno di Napoli (in Commentarium in Centrum sententiis Ptolomaei): ... nel medico e nel filosofo morale non si richiede la sola scienza ma anche la pratica ... Lo stesso affermiamo dell’astrologo ... un astrologo eccellente deve usare una doppia arma: la Natura e la Scienza. Quindi la connotazione scientifica dell’astrologia la poteva distinguere da quella volgare dei tematici, i cosiddetti astrologi di professione, oggetto di riso sin dai tempi di Tolomeo, assicura Pontano.
Uno studio interessante di Giuseppe Toffanin (in Giovanni Pontano fra l’uomo e la Natura) offre alcune delucidazioni in merito a quali fossero le reali connotazioni scientifiche dell’Astrologia e all’avversione che pertanto suscitava, la cui ragione principale consisteva ... nella difficoltà che gli astrologi provavano a fermarsi lì, a non cedere alle lusinghe del’altra scienza, l’Alchimia (nota5). La quale, codeste interferenze non si limitava a scoprirle; pretendeva anche dominare e trasformare. Si cominciava astrologi e si finiva alchimisti.
Si può dire perciò che, dal Rinascimento in poi, si tentò di riagganciarsi all’idea originaria astrologica dell’indissolubilità di cielo e terra e dell’analogia fra macro e microcosmo.
Da questo momento l’astrologia si sdoppia in naturale (astronomia) e giudiziaria. La prima si fonda sulla ricerca e la conquista scientifica delle leggi fisiche dell’universo. Mentre la seconda determina gli influssi degli astri sugli esseri terrestri e sugli uomini; è legata a forme arcaiche di astrolatria e ha cura degli eventi più generali. Il termine «giudiziaria» origina dal greco apotelesmatica = giudizi su eventi che giungono a compimento. Gli Arabi coniarono il termine corrispondente: scienza dei decreti o dei giudizi (nota 6). Tutte le università ne adottarono l’insegnamento, tuttavia, come già detto, non mancarono gli oppositori: a parte la Chiesa, Pico della Mirandola, Savonarola e infine Montanari (citato da Kremmerz).
L’astrologia giudiziaria entrò anche nel campo della morale e della religione ... gli astrologi – dirà infatti S. Agostino nelle Confessioni – pretendono che sia Venere o Saturno o Marte che ci han fatto compiere questa o quell’azione ... e la colpa ricade su colui che ha creato e regge il cielo ...
La Chiesa, dunque, intervenne contro l’astrologia giudiziaria (nota 7), asserendo che questa finiva col negare il libero arbitrio e la provvidenza e volontà salvifica di Dio (nota 8). Ma la Chiesa male interpretò l’antica dottrina astrologica (difesa ad esempio da umanisti come Pontano) confondendola con la parte più ciarlatana di quest’arte che pure le camminava a fianco. Essa in realtà combatteva la possibilità di una scienza e di una pratica che liberassero l’uomo dal suo assoluto controllo! Altro che libero arbitrio e provvidenza!
Proseguendo nel tempo, Giordano Bruno, senza alcuna inibizione cristiana, ritenne superiore la tradizione ermetica egizia al Cristianesimo. L’origine della sapienza, diceva, appartiene agli Egiziani e ai Caldei. L’arte bruniana della memoria, ars hermetica, si basa sull’assunto che imprimendo nella memoria le immagini celesti, le figure zodiacali, ombre della mente divina, si può ottenere il possesso di un’arte figurativa che assisterà meravigliosamente, non solo la memoria, ma tutti i poteri dell’anima (Opere latine).
Fra i libri di coniurationi, trovati in possesso di Bruno quando venne arrestato, vi era il De Sigillis Hermetis et Ptolomaei. Bruno dichiarò che esso non era stato scritto da lui ma copiato per suo conto a Padova e aggiunse: non so se oltre la divinazione naturale vi sia alcun’altra cosa dannata; ed io l’ho fatto trascrivere per servirmene nella giudiziaria (astrologia); ma ancor non l’ho letto, ed ho procurato d’averlo, perché Alberto Magno nel suo libro De mineralibus ne fa menzione, e lo loda nel loco dove tratta De imaginibus lapidum.
Tommaso Campanella, ne La città del Sole assegna alla città un’immagine completa del mondo in quanto governato dalle leggi della magia naturale in dipendenza dalle stelle. La Repubblica campanelliana, come sostiene la Yates, è impregnata, per ogni verso, di astrologia e il suo intero sistema di vita è volto al raggiungimento di un vantaggioso rapporto con le stelle. Il proposito di dar forma ad una buona razza umana, mediante la procreazione selettiva, sta ad indicare la scelta del giusto momento astrologico per il concepimento, e l’esigenza di accoppiare esseri reciprocamente compatibili quanto a temperamento astrologico.
Ma le condanne verso questa scienza antica quanto il mondo, non mutarono lo stato delle cose e le battaglie a favore o contro perdurarono.
Nei confronti della medicina invece, la Chiesa fu molto più larga di concessioni, permettendo l’esercizio dell’astrologia nei suoi riguardi così come nella navigazione.
Dopo che i rapporti fra medicina e astrologia si erano stabiliti sin dai tempi di Galeno, questa scienza entrata nel campo astrologico medievale, riconobbe gli effetti che le onde e gli influssi cosmici ed astrali hanno sulla salute umana. Fino al 1600 quest’arte medica ebbe florida vita e poi un’effimera reviviscenza con il mesmerismo.
Raimondo di Sangro, principe di San Severo reintrodusse nell’età dei Lumi le antiche tradizioni culturali, come la cabala, l’ermetismo e la visione panteistica della natura. L’Ermetismo che sembrava destinato a una lenta emarginazione, privato com’era di ogni funzione specifica tra le forme culturali egemoni, riuscì a sopravvivere adattandosi ai tempi e alla nuova sensibilità.
Lo studioso V. Ferrone nella sua opera I profeti dell’Illuminismo considera che tale dottrina serbava nell’età dei Lumi l’intreccio tra tecniche magiche, insegnamenti astrologici e alchemici.
La secolarizzazione del sapere ermetico, la sua progressiva autonomia dal mondo magico, a favore di un’utilizzazione razionale delle teorie cosmologiche e scientifiche, ma contrapposte al meccanicismo, costituirono un lento ma costante processo che andò sviluppandosi per tutto il 600 per approdare all’inizio del 700 alla sua definitiva consacrazione nell’opera dell’illuminista John Toland, il Phanteisticon, pregna di una filosofia della natura ispirata al panteismo rinascimentale bruniano.
Ma, negli ultimi anni del 700 il nuovo illuminismo vide il riemergere di forme culturali che attingevano a credenze ormai relegate ai margini del dibattito intellettuale e dirette ad un ritorno al magico.
Il progressivo diffondersi del mesmerismo, del sonnambulismo, dell’astrologia naturale, della fisiognomica, la gran quantità di fluidi vitali, elettrici, nervosi, che permeavano un cosmo ancora una volta animato e vitale, favorirono l’indebolimento del pensiero meccanicistico fisico-matematico contro il soprannaturale.
Tale compito fu reso più agevole dal comportamento di alcuni illuministi che amavano privilegiare la dimensione iniziatica delle antiche arti divinatorie, respingendo le istanze neonaturalistiche e le tecniche empiriche, come ad esempio Lavater, o Mesmer che si oppose ai medici e scelse di propagandare il magnetismo animale come una delle terapie possibili, aderendo alla massoneria occultistica e rivendicando il carattere iniziatico delle sue teorie e della capacità di guarigione.
Brevi note sull’astrologia ermetica kremmerziana e sue connessioni con l’ars divinatoria La filosofia ermetica considera l’universo come un’unità incommensurabile (macrocosmo), uguale in funzioni, ovvero per analogia, a ogni unità d’ordine inferiore, e tanto vale anche per il corpo umano (microcosmo). Universo e uomo sono pertanto collegati in un rapporto analogico tale, da influenzarsi vicendevolmente in ogni loro funzione. E per quanto paradossalmente ambizioso, per la condizione umana, possa apparire questo concetto, è innegabile la sensazione d’ampliamento dei confini delle potestà della nostra specie (e non solo), che produce in chi ci si sofferma!
Se il cosmo influisce, infatti, nella modificazione delle nostre funzioni vitali, anche il più piccolo degli esseri viventi, può intervenire a modificare la vita cosmica, sia in senso migliorativo che peggiorativo.
Basti riflettere, guardando un po’ oltre il nostro piccolo orticello, su ciò che accade oggi nel mondo (buco nell’ozono, disastri ambientali, ecc.) per assumerci responsabilità e/o meriti nei confronti della vita universa!
L’astrologia in senso ermetico, e cioè intelligente, è una scienza gradualmente perfettibile che cammina parallelamente alla perfettibilità propria alla natura umana, man mano che quest’ultima si evolve nell’esplicazione delle sue infinite potenzialità creative. In parole povere, se un evento derivante da una congiunzione astronomica produce determinati effetti, un essere che riuscisse a procurare in sé stesso una «congiunzione» analogica a quella astronomica, potrebbe provocare in sé, o nel mondo che lo circonda, i medesimi effetti. Ad esempio, in relazione alle fasi lunari, il Novilunio astronomico è analogico allo stato verginale di nascita e il sintonizzare analogicamente le proprie funzioni e/o azioni a questa fase, può determinare su tutti i tre piani dell’essere (concreto, astrale e divino) il medesimo stato. (Tener conto delle fasi della luna è ancor oggi molto diffuso in agricoltura, in relazione soprattutto alle attività di semina e raccolto, anche se gli stessi contadini hanno perso la memoria delle motivazioni occulte che hanno spinto i loro avi a tramandare determinate regole).Il microcosmo-uomo è senza dubbio, fra gli esseri viventi, il più sensibile alla percezione delle influenze cosmiche. Ancor più lo è la donna che, come dice Kremmerz ... è in disarmonia con (la corrente) astrale e vibrante di sensibilità amorosa di cui ha il più delicato serbatoio fino al tramonto della luna.
Il che sta a indicare che la creatività femminile, non ha sede in un piano occulto, così detto astrale, bensì è metaforicamente governata da Venere - Lucifero, il portatore di Luce, e si manifesta in alto e in basso senza bisogno di intermediazioni astrali, poiché è essa stessa intermediaria di luce e di vita.
Alla donna infatti (vedi come esempio le Sibille), non occorre scrutare gli astri per divinare, e le basta porsi in un determinato stato vibratorio più o meno cosciente, ma per lei naturale, per incarnare il verbo oracolare. Scrive Kremmerz: Vi domandate – se veramente crediamo che gli astri abbiano pertinace influenza sugli uomini e le cose. La domanda la potete fare per la semplice ragione che non capite nulla del linguaggio panteo delle mitologie astronomiche che hanno preceduto il monoteismo ebreo ... Le forze incessanti che mantengono in azione di moto i grandi fattori dell’indicibile sintesi del creato, cioè dell’essere o esistente, discendono all’atomo e alla molecola ... Se la forza iperenergetica della Natura in tutta la sua magnificenza la chiamiamo Marte, nella sua azione fecondativa Venere, o nel suo irraggiamento creatore Giove, o nella morte rinnovatrice Saturno, noi non aspettiamo e non crediamo che tali astri siano i possessori intelligenti e animati che, con incostanza di umori, ci gratificano del loro influsso speciale.Ottaviano, in un saggio intitolato La divinazione pantea (in Commentarium ) afferma che tutte le culture tradizionali, fondate su una cosmologia sacra, credettero e credono nella possibilità di entrare in comunione con lo spirito emanante dalla Natura, data la determinazione di nature umane speciali. Questa divinazione viene detta nella tradizione kremmerziana: pantea, da Pan = Tutto.
Se si considerano inesistenti le barriere e ogni cosa viene considerata parte integrante dell’unità cosmica, la vita delle forme e quella della psiche si compenetrano reciprocamente in un processo di simbiosi occulta, aspirando e assorbendo l’una le qualità dell’altra in una continua tensione evolutiva.
Questa filosofia panteistica fu divulgata da Giordano Bruno che spiegava l’Essere come l’unità in cui si confondono spirito e materia, finito ed infinito, tutto rispecchiato nelle molteplici manifestazioni naturali."... L’universo ha ovunque le impronte del vaticinio ... i segni (signa rerum) "... dice Kremmerz. Fondamentalmente la divinazione riguardava per gli antichi la conoscenza della Natura e del suo linguaggio simbolico. Le conoscenze divinatorie si traducevano nella comprensione di quanto la natura presentava nella sua sintetica semplicità, e nell’intuizione della sua mentalità elementare, dato il presupposto dell’unità dell’essere che determinava una corrente dinamica tra l’osservatore e le cose circostanti. La dottrina augurale italica e romana e l’astrologia sacerdotale ebbero origine appunto dall’interpretazione delle visioni, secondo natura.
L’evento divinatorio può essere una prerogativa dell’intero organismo umano, posto in particolari condizioni fisio-psichiche. Kremmerz parla di trance-lucida, cioè governata dalla volontà educata ermeticamente, sempre da lui definita come lo stato passivo della coscienza esteriore per la liberazione del Nume.
Dunque la momentanea separazione dell’anima dai sensi, chiamata in causa dagli antichi, è piuttosto da intendersi come perfezionamento, attraverso varie tecniche, dell’apparato sensoriale, quale elemento propedeutico all’attività divinatoria, cioè alla comprensione del linguaggio simbolico ed intelligente della natura universa.
In altre parole l’atto divinatorio produce uno sdoppiamento nel soggetto, che sarà pertanto attivo e passivo nello stesso tempo. Scrive in La Fenice Mario Parascandalo (Hahajah) che si può a tal fine supporre, che quanto avviene tra ipnotizzato ed ipnotizzatore, possa essere praticato androginicamente, e cioè da soggetto ed oggetto riuniti insieme in una stessa unità.
Tutto questo non si fa ovviamente dormendo il sonno fisiologico, né l’ipnotico, né il magnetico; si compie tutto in uno stato d’esaltazione extranormale, uno stato di sovreccitazione della sensibilità.
L’indole sensuale di alcune divinità come, ad esempio, Eros e Fauno, è indice di un’intensa esaltazione sensoriale, dipinta come estasi amorosa perché analoga a quest’ultima nel congiungersi ad una dimensione metafisica.
La figura cornuta di Fauno (le corna indicano appunto un’estrema percettività e rendono bene l’immagine di antenne-sensi o di sensi allungati atti a captare ciò che normalmente è impossibile sentire) indicava che l’uomo, sotto l’impulso di certe eccitazioni nervose, poteva sviluppare una facoltà fantastica di sdoppiamento o esteriorizzazione, proiettando volitivamente la sua forma o ombra nell’unità della gran materia cosmica, o anima mundi.
In questo fenomeno attivo si racchiude l’idea che lo spirito della natura non si dona, ma è attirato solo dagli attivi. Il contro altare a questo tipo di divinazione, era costituito dalla medianità dei veggenti che subivano ciò che era ritenuto influsso divino (vedi le pizie o sacerdotesse dell’Apollo greco).
Ridurre inerti i sensi animali per dare completa libertà all’altro, al senso che è il medio conduttore tra l’ultra umano e l’umano è la tecnica consigliata dal Kremmerz, attraverso l’educazione ermetica dei sensi e della volontà.
L’Ermetismo divinatorio o astrologico o visionario o semplicemente intuitivo, a distanza di tempo breve o lungo, può pretendere di arrivare alla prescienza di fenomeni naturali importanti e non aspettati? Sì, partendo dalla premessa che l’Unità Universale è in contatto e corrispondenza perpetua con l’unità uomo. Quindi, se la sensibilità di un uomo eccelle, la previsione di un fenomeno non aspettato, per legge costante di ritorno accertato, non è cosa che essenzialmente ripugna alla ragione. Questo è quanto afferma Kremmerz. Ma sottolinea pure che la divinazione, nella sua essenza profetica comune a tutti, poiché la divinazione pantea (come rapporto col tutto-natura) è incessante e ininterrotta, in effetti, non è propria che alla costituzione dei più aristocratici organismi mentali, i soli atti a leggerne i rapporti e i facili simboli.

mercoledì 24 marzo 2010

le donne del grimorio


Bellezza Orsini fa parte della categoria delle «medichesse», ostetriche e curatrici che, proprio a causa delle loro conoscenze - da cui il mondo degli uomini sembra essere totalmente escluso - impersonano quelle figure liminali, ai margini della società, che troppo spesso vengono allontanate o peggio considerate streghe da una popolazione ignorante e superstiziosa che però non esita a servirsene.
Il romanzo segue, a grandi linee, gli atti del processo a Bellezza Orsini, incriminata e processata per stregoneria, raccolti e trascritti da A. Bertolotti in Streghe, sortiere e maliardi nel secolo XVI in Roma, Firenze 1883 e racconta la storia di una donna che sa di non avere piú scampo ma che combatte per essere sicura che la propria conoscenza medica e di curatrice non vada perduta.
Bellezza consegna infatti il proprio sapere, per il quale é appunto accusata di stregoneria, alla figlia Aglaia che, a sua volta dovrá passarlo alla generazione successiva in modo da non rendere vani i sacrifici di tutte quelle donne che, a causa della propria conoscenza o per il desiderio di essa, hanno lottato contro quella societá che le lasciava sempre in bilico fra l´accettazione e il rifiuto, fra la vita e la morte.
La storia di queste donne è la storia di donne forti che vincono anche quando sono date alle fiamme poiché la loro libertà di pensiero e tutto ciò per cui hanno vissuto e combattuto, viene salvato in quanto la loro conoscenza sarà perpetuata dalle proprie figlie.
Interessante è come il romanzo lasci spazio anche a quella sorta di aura misteriosa e magica che da sempre accompagna queste donne nell’immaginario comune e così il Grimorio, cioé il libro nel quale venivano scritti i riti, gli incantesimi, le corrispondenze, le erbe, le pietre i canti e le invocazioni, diventa il simbolo centrale della trasmissione del sapere.
La lotta per questa libertá é spinta poi al limite dal personaggio di Aglaia, la figlia di Bellezza, che sceglie di essere non solo la “strega” ma anche la “cortigiana”, in grado dunque di esercitare sugli uomini un potere ancora maggiore.
La storia, ambientata nel XVI secolo, descrive ambienti, società e costumi in maniera puntuale e precisa e la ricerca storica risulta inappuntabile.



LE DONNE DEL GRIMORIO
ad Haydée, Anna Maria e Beatrice

pp. 9-22.
Quella gente, le loro grida…
Il giudizio era già stato pronunciato, e non capiva che cosa stessero aspettando. Una sua reazione forse. Scoppiò a ridere. I presenti rabbrividirono. Le grida tacquero per qualche istante poi ripresero più forti di prima.
La stavano conducendo in una piazza ma l’avevano seviziata a tal punto che, per quasi tutto il tragitto, rimase senza sensi. Quando riprese conoscenza era legata strettamente ad un palo. Aveva voglia di piangere ma si trattenne; non avrebbe mai dato soddisfazione a quella misera umanità che l’aveva condannata solo perché non era in grado di capire.
Un francescano le si stava avvicinando e lei sorrise. Non disse nulla ma chinò il capo in un gesto di resa e, risollevandolo, sperò di sentire sul viso la sensazione delle gocce dell’acqua benedetta. Chiuse gli occhi e l’acqua le fece sciogliere le lacrime. Il frate le bisbigliò qualcosa che non capì poi lo sentì gridare che si era pentita, che aveva rinunciato al maligno rinascendo a nuova vita e che dunque poteva concederle la bevanda dell’oblio. Si ritrovò a bere un preparato amarognolo che profumava di mandorle. Il frate la benedisse e si allontanò velocemente ma la sua figura dai contorni sfumati le rimase impressa ancora qualche istante.
Improvvisamente vide il fuoco. La vista le si era annebbiata e sentiva che avrebbe perso i sensi; tentò di lottare con tutte le poche forze che le erano rimaste ma il calore stava diventando insopportabile ed il fumo nero che l’avvolgeva la faceva soffocare.
L’odore acre di bruciato che le aleggiava intorno le ricordava quello di una festa, di una festa paesana cui aveva assistito da bambina dove guitti, menestrelli ed acrobati si esibivano accanto ad un uomo alto e scuro che sputava fuoco. Si perse in quel ricordo.
Il frate, forse quello stesso frate che l’aveva benedetta con l’acqua santa, si accingeva ad indossare i paramenti sacri per benedire i campi ed il raccolto mentre il mangiafuoco faceva gargarismi con quel suo intruglio incendiario. I preparativi per la sagra paesana, l’atteso grande evento della stagione estiva, erano quasi terminati; donne dai copricapi colorati camminavano velocemente fra le bancarelle del mercato ridendo e agitando le loro infaticabili mani. Nastri multicolori facevano capolino ad ogni angolo distraendo garzoni affaccendati e contadini sudati che tornavano a casa ad indossare l’abito buono, quello della festa, quello delle grandi occasioni. Forse quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbero potuto avvicinare la ragazza dei loro sogni, colei che aveva intrecciato al meglio capelli e fiori e che, forse, avrebbe concesso loro un sorriso.
La benedizione dei campi non era stata lunga e, dopo alcune parole spese per i due giovani che avevano deciso di annunciare la propria unione fra quel grano dorato e abbondante, tutti si avviarono felici verso la piazza. Le ragazze camminavano lentamente cinguettando fra loro e raccogliendo qualche papavero rosso che si appuntavano sul cuore o sui capelli. Gli uomini invece, giovanotti dalle braccia poderose, si davano un tono masticando un filo d’erba cercando di farsi notare e facendosi scherzi fra loro ridevano forte.
D’un tratto il ricordo divenne meno vivido e parve dissolversi nella nebbia. Credette di svenire…

Mentre una carrozza scura portava Aglaia verso il luogo dove aveva trascorso i suoi anni più belli, lei ripensava al suo passato con gli occhi velati di pianto. Si sentiva come se avesse vissuto due volte; come se ad un certo punto la sua vita si fosse fermata, come se avesse provato la morte per poi rinascere nel seno di una nuova madre, una donna bruna che profumava di rose e gelsomini. Si rifugiò nell’angolo più scuro della carrozza e chiuse gli occhi. Rammentava bene quella notte ma quando il suo pensiero tornava a quei terribili momenti, ricordava quelle sensazioni come appartenenti ad un’altra, come se avesse assistito alla scena senza prendervi parte, come se tutto quel dolore non fosse stato suo ma di un’altra donna.
Aveva forse tredici anni quando quegli uomini la presero. Aveva passato il pomeriggio a raccogliere noci nelle campagne attorno a Firenze ed era felice di essere riuscita a raccoglierne una quantità che il suo padrone avrebbe certamente apprezzato. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori ed era stata allevata da una vecchia che aveva avuto pietà di lei ma che, non appena raggiunta l’età per poter lavorare, l’aveva mandata a servizio presso una famiglia nobile. Stava rincasando quando cominciò a far scuro. Il tramonto tingeva il cielo dei colori più vivi del fuoco e, benché facesse già piuttosto freddo, le piaceva quella brezza pungente che le solleticava le guance.
D’un tratto sentì gli zoccoli dei cavalli di un drappello di soldati che si stava avvicinando. Si era spostata su un lato della strada per lasciarli passare ed era rimasta ferma con il cesto delle noci stretto in mano ad osservare quei bagliori rosso e arancione che il sole morente rifletteva sulle loro scintillanti armature. Sembravano quasi esseri sovrannaturali, esseri mandati dal cielo per compiere chissà quale importante missione.
Il capo del drappello rallentò l’andatura quando la vide. Le si fermò accanto e, con un accento straniero che le incuteva paura, le chiese che cosa avesse nel cesto che teneva così stretto.
- Noci – aveva risposto senza osare sollevare lo sguardo.
L’uomo era sceso da cavallo e le aveva accarezzato il viso. Non portava i guanti, aveva mani ruvide e callose e la sensazione che le aveva provocato quella carezza l’aveva fatta ritrarre impaurita. L’uomo aveva riso forte a quel gesto, poi, in una lingua sconosciuta, aveva detto qualcosa ai suoi compagni che si unirono a lui in una risata che sembrava provenire dal ventre della terra. Avrebbe voluto scappare, correre lontano, ma le gambe non rispondevano ai suoi comandi; era come impietrita, immobile davanti a quegli uomini, aggrappata, come se potesse aiutarla, al cesto di noci che stringeva forte fra le mani. D’un tratto, si sentì alzare da due braccia poderose e si ritrovò a cavallo. L’animale era stato spronato e ora galoppava lontano da quei luoghi. Aveva paura ma non gridò né cercò di liberarsi dalla stretta di quell’uomo che la stava portando via. Si fermarono che era già notte. Non sapeva che cosa aspettarsi, era terrorizzata e non capiva nulla di quello che dicevano, solo dopo molti anni seppe che quegli uomini parlavano tedesco.
Avevano preparato un bivacco e avevano acceso un fuoco. Cucinarono qualcosa e bevvero molto ma non si scordarono di lei. Fu il loro passatempo per quella sera. Le legarono le braccia sopra la testa e le strapparono le vesti. Tirarono a sorte per chi dovesse averla per primo poi si divertirono con lei tutta la notte. Non riusciva né a gridare né a piangere. Il ventre le bruciava di dolore e svenne più volte. Erano in molti, puzzavano di vino e sudore ma quasi tutti avevano gli occhi del colore del cielo; non si fermarono fino a quando non sorse il sole.
Pensarono fosse morta. Prima di andarsene, la buttarono in un fosso poco profondo non molto distante dal bivacco. Cadendo si ruppe un braccio. Rimase a lungo immobile in quella che pensava sarebbe divenuta la sua fossa e quando fu proprio sicura che se ne fossero andati, finalmente, riuscì a piangere.
Non passò molto tempo; sentì la voce di una donna che canticchiava una nenia che le sembrava di conoscere. Aveva raccolto le poche forze che le rimanevano per gridare aiuto. La voce aveva smesso di cantare. Aveva sentito i suoi passi avvicinarsi e ricordava ancora tutta la pena del grido soffocato che quella donna aveva emesso quando l’aveva trovata.

La donna che l’aveva amorevolmente curata era di una bellezza mai vista. La perfezione dell’ovale del viso, gli occhi scuri grandi e profondi, le labbra carnose ed una cascata di capelli ricci e neri che le incorniciavano il volto le avevano fatto guadagnare, fin dalla sua prima giovinezza, un soprannome che ormai era divenuto parte di lei. Tutti la chiamavano Bellezza e persino lei aveva dimenticato quale fosse il vero nome con il quale era stata battezzata. Donna Bellezza era divenuta per lei la madre che non aveva mai conosciuto, fra le sue braccia si sentiva sicura, protetta, rinata a nuova vita. Non volle tenere il nome che le ricordava un triste passato e chiese alla sua salvatrice di dargliene uno nuovo. Da quel giorno fu Aglaia per tutti.
Il suo braccio era guarito perfettamente, le ferite rimarginate e l’aborto che donna Bellezza le aveva procurato l’aveva liberata del peso di quegli uomini sul suo giovane seno. Quasi non riusciva a credere d’essere nuovamente felice. Rimase con Bellezza a lungo ma solo molti anni dopo riuscì a comprendere appieno i suoi insegnamenti.

Abitava a Roma ormai da parecchio tempo. Frequentava l’aristocrazia e alcuni fra i più eminenti rappresentanti del clero che l’apprezzavano per la sua straordinaria intelligenza, per l’amabilità del suo spirito, per la vastità della sua cultura e, non ultimo, per la sua intrigante bellezza. Aglaia non si era mai considerata bella, ma i tratti irregolari del viso, l’intensità degli occhi verdi smeraldo e la lunga chioma rossa sempre perfettamente acconciata, riuscivano ad accendere l’interesse degli uomini più diversi. Si era assicurata un tenore di vita che molte delle altre cortigiane oneste di Roma non avrebbero forse mai raggiunto.
Quando aveva saputo della cattura di sua madre non aveva esitato un minuto, aveva fatto preparare tre bauli, due quasi vuoti ed uno pieno di alcuni effetti personali e, accompagnata da Porzia, la sua cameriera personale, da Albrecht, una specie di guardia del corpo che la seguiva ovunque e da due servi di fiducia, era partita. Ora, seduta in quella carrozza si sentiva squarciare l’anima. Non poteva crederci. L’ultima volta che aveva incontrato donna Bellezza era stato qualche mese prima quando, triste e scoraggiata, lontana dall’unico uomo che amava, si era rifugiata nel suo abbraccio materno per scappare dal mondo, per ritrovare la forza di vivere; chissà, forse ora l’avrebbe rivista attraverso una grata e forse non avrebbe potuto nemmeno toccarla. Ma sua madre aveva bisogno della sua presenza e lei lo sapeva.
Sentiva l’anima gridare, ma non con la sua voce.

Era l’anima di Bellezza a gridare. Fin da quando l’avevano portata in quella segreta scura e maleodorante sita sotto le stanze della tortura, aveva pensato che questa volta si sarebbe compiuto il suo destino. Era ormai avanti con l’età anche se sul suo viso, sotto rughe ancora non troppo evidenti, si potevano notare i segni di una straordinaria avvenenza che non l’aveva ancora abbandonata quasi avesse per questo, fatto un patto con il demonio.
Erano stati a casa sua quel giorno ed il grande cane nero, che le faceva compagnia da molti anni, fin dal mattino si era mostrato irrequieto ringhiando e aggirandosi sospettoso in casa ed in giardino, mentre tutto intorno taceva. Il silenzio di quella mattina primaverile sembrava irreale, nessun uccello cantava, le galline nell’aia sembravano ammutolite, il gatto era sparito dalla sera precedente e persino il vento pareva essersi fermato in attesa. Solo il baritonale brontolio del cane rompeva la quiete.
Aveva tentato di immaginare quel giorno per molti anni e, pur non avendolo mai pensato a quel modo, capì immediatamente che era giunto il momento. Quella mattina si era svegliata presto, si era lavata con cura, aveva raccolto i capelli sulla nuca ed aveva indossato un sobrio abito scuro, poi si era seduta sui gradini davanti la porta di casa a filare.
D’un tratto l’aria risuonò di lugubri passi ferrosi e un piccolo drappello di soldati si fermò poco distante dalla sua casa.
Il cane nero ringhiava ferocemente.
Qualcuno diede ordine di scendere da cavallo e avvicinarsi alla casa. Il cane si avventò rabbiosamente contro due soldati, ne ferì uno e quasi uccise il secondo. Gli altri si ritrassero spaventati, gridando per tenere lontano quella bestia feroce e trascinando faticosamente i corpi dei due malcapitati nel tentativo di ritornare verso i propri cavalli.
Bellezza continuava a filare.
Una voce tuonò, i soldati tacquero immediatamente e un cavallo fu spronato al galoppo. Il cane gli si avventò contro con tutte le sue forze ma non appena gli fu vicino fu trafitto da un colpo di spada. Si rotolò a terra con un guaito ma si rialzò subito. Un secondo colpo, più forte e preciso del primo lo ferì nuovamente e questa volta non riuscì più a rialzarsi. Il cane giaceva sull’erba, coperto di sangue ma continuava a ringhiare.
Bellezza si sentì sollevare da mani robuste. Fu chiusa in una gerla di legno di faggio e in quel modo fu trasportata fino alle segrete della Rocca di Fiano Romano nelle terre degli Orsini.

Quando Aglaia arrivò davanti alla Rocca era ormai sera. La campana del paese aveva già suonato i vespri e tutto intorno era silenzio. Il palazzo che si ergeva davanti a lei era alto, imponente, tetro, quasi minaccioso, così diverso da come lo ricordava tanto che per un attimo credette d’aver sbagliato strada. Rimase immobile qualche istante poi, riconoscendo uno degli stemmi sul muro aprì la porta della carrozza.
Scese trattenendo il fiato, si aggiustò il cappuccio scuro del mantello e si diresse verso la porta principale. Camminava lentamente ma il suo incedere era sicuro e, vedendola camminare, nessuno avrebbe potuto pensare che, lungo quei pochi metri che la dividevano dall’entrata del palazzo, il suo animo fosse così tormentato da toglierle quasi il respiro. Man mano che si avvicinava, la Rocca le sembrava mutare forma fino a quando non le parve di vedere la bocca di un mostro infernale che tutto inghiotte e divora. Per un istante pensò di fuggire lontano, ma fu il pensiero di un solo istante. Continuò a camminare e si fermò davanti al portone. Bussò ripetutamente con forza. Dopo qualche minuto qualcuno andò ad aprire.
Si trattava di un giovane soldato che non poteva avere più di vent’anni. Aveva i capelli scuri ed il fisico asciutto ma sul viso si leggeva distintamente il passaggio del vaiolo.
Porzia aveva seguito la sua padrona e si era fermata poco dietro di lei. Quando il giovane si era affacciato aveva dovuto faticare per trattenere il disgusto mentre Aglaia sorrise d’un sorriso che lo fece restare senza fiato.
Lo guardava dritto in volto senza scomporsi, sorrideva, pareva non accorgersi nemmeno del suo viso orribilmente butterato. Scusandosi per l’ora tarda gli disse che aveva fatto un lungo viaggio e, dolcemente, gli chiese se fosse ancora possibile vedere una delle prigioniere.
- Mi deve scusare se insisto – disse Aglaia avvicinandosi un poco – so che probabilmente le hanno ordinato di non fare entrare nessuno ma… vorrei vedere mia madre. Le prometto che non resterò a lungo con lei, la prego…
Nessuna donna lo aveva mai guardato in quel modo. Il giovane soldato rimase incantato dalla dolcezza di quel viso e dalla forza di quello sguardo. Per la prima volta nella sua vita, si sentì attraente. Non avrebbe mai permesso che occhi come quelli si riempissero di lacrime e non seppe dire di no alla richiesta che gli era stata fatta.
Aglaia e Porzia furono accompagnate in silenzio fin alla porta della cella in cui era stata rinchiusa Bellezza ma solo Aglaia entrò nella stanza. La donna che era divenuta sua madre giaceva in un angolo e quando il soldato richiuse la porta alzò la testa e sorrise.
- Sapevo che saresti venuta – disse a voce bassissima – come è andato il viaggio?
Aglaia voleva piangere ma si trattenne.
- Non credo che questa volta riuscirò a salvarmi, – continuò Bellezza – dicono che sono una maestra di stregoneria, dicono che faccio incantesimi e malie. I miei giudici hanno paura. Gli uomini hanno sempre paura di una donna che non possono dominare, che non comprendono, che conosce cose che loro neanche possono immaginare…
- E tu? Tu hai paura mamma?
- Non so. Credo. Oggi ho sentito i gemiti dei torturati morenti. Vieni qui, fatti abbracciare.
Restarono qualche minuto strette quasi senza respirare, poi Aglaia si rese conto di percepire il battito del cuore della madre. Passava attraverso il suo corpo, pompava il suo sangue, era nel suo petto… l’unione era col mondo.
Quando sua madre si sedette nuovamente sul pagliericcio nell’angolo la piccola cella rimbombò. Il soldato batteva alla porta e quei colpi arrivarono ad Aglaia come frecce; sentì un dolore così lancinante che credette di svenire. Un attimo dopo si ritrovò fuori dalla cella, sorretta da Porzia che camminava veloce dietro al giovane butterato che, silenzioso, le riaccompagnava all’uscita.
Ormai era buio e la carrozza, ferma davanti al portone, era in attesa. Le due donne salirono velocemente e si fecero portare via. Mentre si allontanavano Aglaia si abbandonò fra le braccia della sua fedele amica e si lasciò cullare come una bambina. Nel silenzio della notte si udivano solo gli zoccoli dei cavalli.

Quando arrivarono a casa di Bellezza, poco fuori Filacciano, trovarono la porta ancora aperta. Aglaia scese dalla carrozza ed entrò; fece portare dentro le sue cose e diede ordine ad Albrecht e ai due servitori di sistemarsi nella stalla.
La casa era composta da tre stanze, nella più piccola vi era il letto ed un armadio, la stanza centrale era quella più ampia e vi si trovavano un tavolo, alcuni sgabelli, una sedia e gli arredi della cucina disposti a semicerchio intorno al fuoco. La terza stanza era chiusa da una porta pesante. Porzia non credette ai propri occhi quando, entrandovi, si ritrovò di fronte ad una specie di magazzino pieno di vasi ed alambicchi, di bizzarre boccette di vetro, di molti recipienti dalle forme e dai colori più disparati e di parecchi setacci sui quali erano state appoggiate erbe e foglie da far essiccare.
L’odore che si respirava era forte ed acre ma, stranamente, non disturbava anzi sembrava invitare ad entrare. Porzia rimase qualche istante ad osservare la sua padrona che pareva trovarsi perfettamente a suo agio fra tutte quelle stranezze.
- Guarda! Verbena, menta, ricino, belladonna, mandragola, aloe, achillea, cicuta… Mia madre ha sempre avuto la capacità di riconoscere le erbe e di saperle utilizzare. Sai, credo che abbia imparato quest’arte dai frati dell’abbazia di San Paolo dove ha trascorso un periodo da giovane. Ha insegnato qualcosa anche a me, ma non sono mai riuscita a preparare pozioni come lei! Non è meraviglioso?! … Perché me l’hanno portata via, perché…?!
Aglaia si appoggiò ad un lungo bancone sul quale erano un’infinità di cose e, finalmente, riuscì a piangere. Piangeva sommessamente poi, prese a singhiozzare. Era la prima volta che Porzia vedeva la sua padrona in quello stato. Le si avvicinò, cercò di farla rialzare per accompagnarla a letto. Era stata una giornata pesante ed aveva bisogno di riposare. Quando la toccò per aiutarla sentì un brivido; capì che la sua padrona voleva farle un dono.
Mentre l’aiutava a spogliarsi si rese conto che quella svestizione era un cerimoniale.
Le vesti scivolarono via lentamente e Aglaia rimase in piedi, nuda, nella penombra davanti al fuoco. Porzia era immobile, incantata a fissare la sua signora. La luce che veniva dal camino illuminava quel corpo chiaro, liscio e morbido, fragile all’apparenza, sul quale il continuo movimento delle ombre create dalle fiamme sembrava dipingere parole antiche e misteriose. Aglaia chiese che le fosse portato uno specchio. Porzia si diresse nella stanza delle erbe dove aveva creduto di vederne alcuni ed infatti ne trovò più di uno.
- Quello grande – le gridò la sua padrona – quello dentro la cornice di legno dorato!
Sollevando lo specchio Porzia provò una strana sensazione e non volle guardarci dentro. Aveva sempre amato gli specchi, da bambina si rifletteva ovunque, nei vetri, nelle pozzanghere lungo la strada, nell’acqua del catino, negli argenti che sua madre puliva quando era a servizio dei Colonna… Ma in quel momento non ebbe il coraggio di osservare la propria immagine riflessa col timore di scoprire qualcosa che non le sarebbe piaciuto.
Arrivata nella stanza la sua signora le fece cenno di appoggiare lo specchio sul muro di fronte al fuoco dove aveva gettato qualche erba che bruciando profumava l’aria intorpidendo i sensi. Aglaia si pose con le spalle al fuoco e, bisbigliò alcune parole poi, fissò a lungo lo specchio. Dopo alcuni brevi interminabili momenti si accasciò a terra stremata.
Porzia non disse una parola, le appoggiò un mantello di lana sulle spalle e si sedette accanto a lei. Da quel giorno avrebbe cominciato ad imparare cose che prima non avrebbe potuto nemmeno immaginare.

Aglaia si appoggiò sul letto di sua madre ma dormì pochissimo. Era molto presto quando si alzò e si diresse nella stanza in cui sua madre teneva le sue cose e che lei, fin da piccola, aveva soprannominato la «stanza delle erbe». Quando Porzia si svegliò e la raggiunse per aiutarla, Aglaia aveva già impacchettato parecchio materiale. Bisognava che tutte quelle erbe e quegli oggetti non venissero distrutti o sequestrati dalle autorità ed era necessario fare in fretta: sarebbero presto venuti a perquisire la casa. Chiusero bene tutte le boccette contenenti le erbe essiccate e gli infusi, avvolsero gli alambicchi e tutti gli oggetti fragili in pesanti panni di lana riponendoli attentamente nei due grossi bauli che Aglaia aveva portato con sé.
Le ultime cose da portare via erano vasi di terracotta scuri che si trovavano in un armadio in fondo alla stanza e che Porzia non ebbe il permesso di toccare. I due bauli che Aglaia si era portata da Roma erano ormai così pieni che, per riporre il misterioso materiale dell’armadio in qualcosa che fosse facilmente trasportabile, Porzia fu costretta a svuotare la vecchia madia di noce che si trovava in cucina.
Aglaia aveva mandato il cocchiere ed i due uomini della scorta in paese per comprare qualche vivanda ma la gente di Filacciano, che aveva già saputo dell’arrivo di Aglaia, si era rifiutata di dare loro qualsiasi cosa chiedessero. Il fornaio li aveva cacciati in malo modo, il macellaio non aveva nemmeno alzato la testa quando erano entrati nella sua bottega e nessuna delle persone che avevano incontrato aveva risposto alle loro domande. Molti non appena li vedevano cambiavano strada, qualcuno restava immobile ad osservarli ma nessuno rivolse loro la parola. Non furono serviti nemmeno all’osteria.
Sconcertati ed increduli dal comportamento di quella gente si ricordarono delle parole che Aglaia aveva detto loro: se ci fossero stati dei problemi avrebbero dovuto recarsi dall’ebreo.
Provarono a chiedere dove abitasse l’ebreo senza ottenere risposta. Avevano quasi deciso di tornare indietro quando una ragazzina, con una lunga scarmigliata chioma rossa e due grandi occhi verdi, che stava saltando a piedi nudi in una pozzanghera si avvicinò e sorrise loro. Li guardava divertita e dopo averli fissati qualche istante disse, prima che loro potessero parlare, che la casa che cercavano era l’ultima in fondo alla strada, quella più vicina alla boscaglia.
La casa dell’ebreo era piccola e ben tenuta, con un piccolo giardino pieno di rose, un orto ben curato e un vecchissimo albero di noce. Il cocchiere, Albrecht, che serviva fedelmente Aglaia ormai da molti anni, bussò alla porta. Gli aprì un uomo di una certa età, ancora vigoroso con una corta barba caprina e due vivacissimi occhi scuri. L’uomo lo fissò qualche istante poi le sue labbra si aprirono in un accattivante sorriso.
- Benvenuti – disse con fare amichevole – non vi hanno dato nulla, eh? Questi zotici non impareranno mai ad accogliere gli stranieri! Venite, ho qui un cesto già pronto, è per la piccola Aglaia, vero?
- Sì, signore – disse uno dei due uomini della scorta – la nostra padrona ci ha detto di venire da lei se avessimo avuto dei problemi con la gente del paese. Ma, signore, perché nessuno ci ha voluto ascoltare, signore?
L’ebreo allungò loro un grande cesto di vimini ricolmo di frutta, verdura, carne, uova, pane, farina, miele e qualche altra cosa e sorrise.
- Hanno paura di ciò che non capiscono, ma non vi preoccupate, la piccola Aglaia, la vostra padrona, sa come tenerli a bada. E adesso andate. Ditele che l’aspetto.
I tre uomini tornarono in fretta verso la casa di Bellezza e quando arrivarono, tutto era già pronto per essere portato via. Consegnarono il cesto, caricarono i bauli e la madia sulla carrozza e, senza aggiungere altro, si apprestarono a ripartire per Roma.
- Sai che cosa devi fare – raccomandò Aglaia al cocchiere – non fermarti fino a quando non sarete arrivati. Porta tutto nel casino di campagna che sai tu e non farne parola con nessuno. Se ti chiederanno spiegazioni dì che nei bauli ci sono alcuni dei miei abiti. Aspetta lì, presto verrà una giovane donna a reclamare le mie cose. Sii fedele a lei come lo sei stato a me. Addio.
Gli sfiorò la mano prima di rientrare in casa e guardarli partire dalla finestra, lui fu percorso da un brivido ma riuscì a dire:
- L’ebreo vi aspetta, signora.
Chiudendo la porta di casa pensò che di quell’uomo dagli occhi azzurri, trasparenti come il ghiaccio, poteva certamente fidarsi, le era fedele da sempre e non l’avrebbe mai tradita così come non avrebbe mai tradito nemmeno Lei...
Rimase sulla soglia ad osservare la carrozza che si allontanava verso il sole pensando che quella era l’ultima volta che avrebbe visto Albrecht. Era un uomo singolare, aveva un’età indefinita che forse si avvicinava a quella di sua madre, non parlava molto ma osservava ogni cosa e la seguiva ad ogni passo per essere lì a proteggerla se mai ne avesse avuto bisogno. L’aveva conosciuto quando, una notte si era rifugiato in casa sua per scappare dalle guardie. Non gli aveva mai chiesto perché lo stessero cercando. In fondo non le interessava. I suoi occhi chiari come il ghiaccio lasciavano intravedere una grande anima e questo le bastava.
Mentre la carrozza scompariva alla sua vista, una figura dai contorni sfumati si avvicinava con passo spedito.

Accanto all’uomo camminava un cavallo.
La luce del pomeriggio era molto forte ed Aglaia riconobbe chi fosse l’uomo che si dirigeva verso la sua casa solo quando fu abbastanza vicino per poterne distinguere l’andatura. Si precipitò fuori dalla porta e gli corse incontro. Non aveva avuto tempo di farsi acconciare ed i riflessi ramati della sua lunghissima chioma brillavano al sole come fiammelle.
Quando finalmente lo raggiunse si perse nel suo abbraccio. Era un uomo alto e muscoloso e la sua pelle sapeva di buono; doveva essere forte, lo sapeva, ma con Davide poteva lasciarsi andare, chiuse gli occhi e si lasciò sopraffare dalle emozioni.
- Sorellina! – le sussurrò stringendola fra le braccia – sono venuto appena ho saputo del tuo arrivo. In paese non si parla d’altro.
Erano quasi due anni che non si vedevano e l’ultima volta lui non aveva potuto andarla a trovare perché la moglie glielo aveva impedito. Era pazzesco ma la moglie di Davide, non voleva che si incontrassero, non le aveva nemmeno fatto conoscere le sue due bambine, tentando di cancellarla dalla loro vita. All’inizio Aglaia aveva pensato che non volesse a causa della sua reputazione ma poi si era resa conto che il motivo della forte gelosia della cognata erano quell’amore fraterno e quella profonda comprensione che li univa e che lei non sarebbe mai riuscita ad avere.
Davide e Aglaia non erano fratelli carnali ma la loro sintonia era sempre stata così assoluta ed incondizionata da farli sembrare addirittura gemelli. Aglaia non aveva mai visto le sue nipoti ma Bellezza le aveva raccontato che la prima era in tutto uguale a sua madre mentre la seconda, per qualche misterioso e straordinario evento, assomigliava incredibilmente proprio a lei, aveva gli stessi capelli rosso fiammante, gli stessi larghi occhi verdi e quando qualcosa la irritava assumeva la sua stessa espressione imbronciata.
Davide l’abbracciò così forte che quasi le tolse il respiro.
- So che sei già stata alla Rocca – le disse dolcemente – spero tu sia riuscita a vederla. Ho mandato qualcuno ad avvertirti appena l’hanno portata via; sapevo saresti venuta immediatamente.
Aglaia alzò la testa e lo guardò con gli occhi velati di lacrime. Sembrava una bambina.
- Ti ho portato Chirone – le sussurrò sciogliendola lentamente dal suo abbraccio – da quando te ne sei andata nessuno è riuscito a montarlo, nemmeno io. Un giorno lo stavo strigliando quando è entrata nella stalla Caterina e il cavallo si è immediatamente girato verso di lei. Si sono osservati a vicenda qualche istante poi, mia figlia mi ha chiesto di aiutarla a montarlo. Avevo paura che la disarcionasse e non volevo che lo cavalcasse ma qualcosa mi spingeva a lasciarla fare. Non volle la sella e quando gli salì in groppa Chirone non si mosse. Lo accarezzò sul collo proprio come fai tu e da allora è il suo cavallo. Ma quando le ho detto che te lo avrei portato non ha protestato.
Aglaia accarezzò il cavallo che sembrò risponderle abbassando il muso verso la sua spalla.
- Chirone non è un cavallo come gli altri, dovresti saperlo. E’ importante che l’abbia riconosciuta.
Aglaia accarezzava il suo cavallo con una delicatezza ed un’attenzione che facevano pensare alle coccole per un bimbo.
- L’hanno portata via come la peggiore delle lamie – le disse Davide destandola dai ricordi che le affollavano la mente e il cuore – l’hanno accusata di compiere malefici e di uccidere bambini, voglio chiedere al luogotenente di darmi copia degli atti che hanno compilato contro di lei. Ho imparato a leggere, sai, e a far di conto.
Era come svegliarsi all’improvviso e ritrovarsi in una realtà del tutto simile a quell’incubo che si pensava di poter allontanare con la veglia. Aglaia era come stordita ma sapeva di dover fare qualcosa. Chissà, forse qualcuna delle sue molte conoscenze avrebbe potuto aiutarla, forse era ancora in tempo perché non si avverasse la profezia che aveva visto nello specchio, forse sarebbe riuscita a salvarla.
D’un tratto si ricordò il libro di sua madre. Era il libro che raccoglieva tutta la conoscenza delle donne che l’avevano preceduta ed ora avrebbe dovuto averlo lei per conservarlo fino a quando non ci fosse stato qualcuno in grado di proseguire il loro cammino.
- Sai dove la mamma ha nascosto il Grimorio? – chiese improvvisamente a Davide – ho fatto portare vie le sue cose ma non sono riuscita a trovarlo.
Era l’unico dei suoi quattro fratelli, oltre ad Alessandro, il primogenito, con il quale poteva parlare liberamente di queste cose. Gli altri due non erano mai stati istruiti nell’arte della conoscenza delle erbe e dei molti segreti che la loro madre custodiva; Bellezza diceva che non avrebbero compreso e che avrebbero sfruttato le loro capacità per fare del male.
Non tutti avevano lo stesso padre…
Davide scosse la testa.
- No, non so dove l’abbia messo. Sai bene che l’ho visto soltanto una volta e che non ho mai potuto toccarlo. Il libro è destinato a te, alla sua unica figlia, e non può essere passato ad un uomo. Chiedi al tuo cuore di trovarlo per te: è il solo modo.