mercoledì 24 marzo 2010

le donne del grimorio


Bellezza Orsini fa parte della categoria delle «medichesse», ostetriche e curatrici che, proprio a causa delle loro conoscenze - da cui il mondo degli uomini sembra essere totalmente escluso - impersonano quelle figure liminali, ai margini della società, che troppo spesso vengono allontanate o peggio considerate streghe da una popolazione ignorante e superstiziosa che però non esita a servirsene.
Il romanzo segue, a grandi linee, gli atti del processo a Bellezza Orsini, incriminata e processata per stregoneria, raccolti e trascritti da A. Bertolotti in Streghe, sortiere e maliardi nel secolo XVI in Roma, Firenze 1883 e racconta la storia di una donna che sa di non avere piú scampo ma che combatte per essere sicura che la propria conoscenza medica e di curatrice non vada perduta.
Bellezza consegna infatti il proprio sapere, per il quale é appunto accusata di stregoneria, alla figlia Aglaia che, a sua volta dovrá passarlo alla generazione successiva in modo da non rendere vani i sacrifici di tutte quelle donne che, a causa della propria conoscenza o per il desiderio di essa, hanno lottato contro quella societá che le lasciava sempre in bilico fra l´accettazione e il rifiuto, fra la vita e la morte.
La storia di queste donne è la storia di donne forti che vincono anche quando sono date alle fiamme poiché la loro libertà di pensiero e tutto ciò per cui hanno vissuto e combattuto, viene salvato in quanto la loro conoscenza sarà perpetuata dalle proprie figlie.
Interessante è come il romanzo lasci spazio anche a quella sorta di aura misteriosa e magica che da sempre accompagna queste donne nell’immaginario comune e così il Grimorio, cioé il libro nel quale venivano scritti i riti, gli incantesimi, le corrispondenze, le erbe, le pietre i canti e le invocazioni, diventa il simbolo centrale della trasmissione del sapere.
La lotta per questa libertá é spinta poi al limite dal personaggio di Aglaia, la figlia di Bellezza, che sceglie di essere non solo la “strega” ma anche la “cortigiana”, in grado dunque di esercitare sugli uomini un potere ancora maggiore.
La storia, ambientata nel XVI secolo, descrive ambienti, società e costumi in maniera puntuale e precisa e la ricerca storica risulta inappuntabile.



LE DONNE DEL GRIMORIO
ad Haydée, Anna Maria e Beatrice

pp. 9-22.
Quella gente, le loro grida…
Il giudizio era già stato pronunciato, e non capiva che cosa stessero aspettando. Una sua reazione forse. Scoppiò a ridere. I presenti rabbrividirono. Le grida tacquero per qualche istante poi ripresero più forti di prima.
La stavano conducendo in una piazza ma l’avevano seviziata a tal punto che, per quasi tutto il tragitto, rimase senza sensi. Quando riprese conoscenza era legata strettamente ad un palo. Aveva voglia di piangere ma si trattenne; non avrebbe mai dato soddisfazione a quella misera umanità che l’aveva condannata solo perché non era in grado di capire.
Un francescano le si stava avvicinando e lei sorrise. Non disse nulla ma chinò il capo in un gesto di resa e, risollevandolo, sperò di sentire sul viso la sensazione delle gocce dell’acqua benedetta. Chiuse gli occhi e l’acqua le fece sciogliere le lacrime. Il frate le bisbigliò qualcosa che non capì poi lo sentì gridare che si era pentita, che aveva rinunciato al maligno rinascendo a nuova vita e che dunque poteva concederle la bevanda dell’oblio. Si ritrovò a bere un preparato amarognolo che profumava di mandorle. Il frate la benedisse e si allontanò velocemente ma la sua figura dai contorni sfumati le rimase impressa ancora qualche istante.
Improvvisamente vide il fuoco. La vista le si era annebbiata e sentiva che avrebbe perso i sensi; tentò di lottare con tutte le poche forze che le erano rimaste ma il calore stava diventando insopportabile ed il fumo nero che l’avvolgeva la faceva soffocare.
L’odore acre di bruciato che le aleggiava intorno le ricordava quello di una festa, di una festa paesana cui aveva assistito da bambina dove guitti, menestrelli ed acrobati si esibivano accanto ad un uomo alto e scuro che sputava fuoco. Si perse in quel ricordo.
Il frate, forse quello stesso frate che l’aveva benedetta con l’acqua santa, si accingeva ad indossare i paramenti sacri per benedire i campi ed il raccolto mentre il mangiafuoco faceva gargarismi con quel suo intruglio incendiario. I preparativi per la sagra paesana, l’atteso grande evento della stagione estiva, erano quasi terminati; donne dai copricapi colorati camminavano velocemente fra le bancarelle del mercato ridendo e agitando le loro infaticabili mani. Nastri multicolori facevano capolino ad ogni angolo distraendo garzoni affaccendati e contadini sudati che tornavano a casa ad indossare l’abito buono, quello della festa, quello delle grandi occasioni. Forse quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbero potuto avvicinare la ragazza dei loro sogni, colei che aveva intrecciato al meglio capelli e fiori e che, forse, avrebbe concesso loro un sorriso.
La benedizione dei campi non era stata lunga e, dopo alcune parole spese per i due giovani che avevano deciso di annunciare la propria unione fra quel grano dorato e abbondante, tutti si avviarono felici verso la piazza. Le ragazze camminavano lentamente cinguettando fra loro e raccogliendo qualche papavero rosso che si appuntavano sul cuore o sui capelli. Gli uomini invece, giovanotti dalle braccia poderose, si davano un tono masticando un filo d’erba cercando di farsi notare e facendosi scherzi fra loro ridevano forte.
D’un tratto il ricordo divenne meno vivido e parve dissolversi nella nebbia. Credette di svenire…

Mentre una carrozza scura portava Aglaia verso il luogo dove aveva trascorso i suoi anni più belli, lei ripensava al suo passato con gli occhi velati di pianto. Si sentiva come se avesse vissuto due volte; come se ad un certo punto la sua vita si fosse fermata, come se avesse provato la morte per poi rinascere nel seno di una nuova madre, una donna bruna che profumava di rose e gelsomini. Si rifugiò nell’angolo più scuro della carrozza e chiuse gli occhi. Rammentava bene quella notte ma quando il suo pensiero tornava a quei terribili momenti, ricordava quelle sensazioni come appartenenti ad un’altra, come se avesse assistito alla scena senza prendervi parte, come se tutto quel dolore non fosse stato suo ma di un’altra donna.
Aveva forse tredici anni quando quegli uomini la presero. Aveva passato il pomeriggio a raccogliere noci nelle campagne attorno a Firenze ed era felice di essere riuscita a raccoglierne una quantità che il suo padrone avrebbe certamente apprezzato. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori ed era stata allevata da una vecchia che aveva avuto pietà di lei ma che, non appena raggiunta l’età per poter lavorare, l’aveva mandata a servizio presso una famiglia nobile. Stava rincasando quando cominciò a far scuro. Il tramonto tingeva il cielo dei colori più vivi del fuoco e, benché facesse già piuttosto freddo, le piaceva quella brezza pungente che le solleticava le guance.
D’un tratto sentì gli zoccoli dei cavalli di un drappello di soldati che si stava avvicinando. Si era spostata su un lato della strada per lasciarli passare ed era rimasta ferma con il cesto delle noci stretto in mano ad osservare quei bagliori rosso e arancione che il sole morente rifletteva sulle loro scintillanti armature. Sembravano quasi esseri sovrannaturali, esseri mandati dal cielo per compiere chissà quale importante missione.
Il capo del drappello rallentò l’andatura quando la vide. Le si fermò accanto e, con un accento straniero che le incuteva paura, le chiese che cosa avesse nel cesto che teneva così stretto.
- Noci – aveva risposto senza osare sollevare lo sguardo.
L’uomo era sceso da cavallo e le aveva accarezzato il viso. Non portava i guanti, aveva mani ruvide e callose e la sensazione che le aveva provocato quella carezza l’aveva fatta ritrarre impaurita. L’uomo aveva riso forte a quel gesto, poi, in una lingua sconosciuta, aveva detto qualcosa ai suoi compagni che si unirono a lui in una risata che sembrava provenire dal ventre della terra. Avrebbe voluto scappare, correre lontano, ma le gambe non rispondevano ai suoi comandi; era come impietrita, immobile davanti a quegli uomini, aggrappata, come se potesse aiutarla, al cesto di noci che stringeva forte fra le mani. D’un tratto, si sentì alzare da due braccia poderose e si ritrovò a cavallo. L’animale era stato spronato e ora galoppava lontano da quei luoghi. Aveva paura ma non gridò né cercò di liberarsi dalla stretta di quell’uomo che la stava portando via. Si fermarono che era già notte. Non sapeva che cosa aspettarsi, era terrorizzata e non capiva nulla di quello che dicevano, solo dopo molti anni seppe che quegli uomini parlavano tedesco.
Avevano preparato un bivacco e avevano acceso un fuoco. Cucinarono qualcosa e bevvero molto ma non si scordarono di lei. Fu il loro passatempo per quella sera. Le legarono le braccia sopra la testa e le strapparono le vesti. Tirarono a sorte per chi dovesse averla per primo poi si divertirono con lei tutta la notte. Non riusciva né a gridare né a piangere. Il ventre le bruciava di dolore e svenne più volte. Erano in molti, puzzavano di vino e sudore ma quasi tutti avevano gli occhi del colore del cielo; non si fermarono fino a quando non sorse il sole.
Pensarono fosse morta. Prima di andarsene, la buttarono in un fosso poco profondo non molto distante dal bivacco. Cadendo si ruppe un braccio. Rimase a lungo immobile in quella che pensava sarebbe divenuta la sua fossa e quando fu proprio sicura che se ne fossero andati, finalmente, riuscì a piangere.
Non passò molto tempo; sentì la voce di una donna che canticchiava una nenia che le sembrava di conoscere. Aveva raccolto le poche forze che le rimanevano per gridare aiuto. La voce aveva smesso di cantare. Aveva sentito i suoi passi avvicinarsi e ricordava ancora tutta la pena del grido soffocato che quella donna aveva emesso quando l’aveva trovata.

La donna che l’aveva amorevolmente curata era di una bellezza mai vista. La perfezione dell’ovale del viso, gli occhi scuri grandi e profondi, le labbra carnose ed una cascata di capelli ricci e neri che le incorniciavano il volto le avevano fatto guadagnare, fin dalla sua prima giovinezza, un soprannome che ormai era divenuto parte di lei. Tutti la chiamavano Bellezza e persino lei aveva dimenticato quale fosse il vero nome con il quale era stata battezzata. Donna Bellezza era divenuta per lei la madre che non aveva mai conosciuto, fra le sue braccia si sentiva sicura, protetta, rinata a nuova vita. Non volle tenere il nome che le ricordava un triste passato e chiese alla sua salvatrice di dargliene uno nuovo. Da quel giorno fu Aglaia per tutti.
Il suo braccio era guarito perfettamente, le ferite rimarginate e l’aborto che donna Bellezza le aveva procurato l’aveva liberata del peso di quegli uomini sul suo giovane seno. Quasi non riusciva a credere d’essere nuovamente felice. Rimase con Bellezza a lungo ma solo molti anni dopo riuscì a comprendere appieno i suoi insegnamenti.

Abitava a Roma ormai da parecchio tempo. Frequentava l’aristocrazia e alcuni fra i più eminenti rappresentanti del clero che l’apprezzavano per la sua straordinaria intelligenza, per l’amabilità del suo spirito, per la vastità della sua cultura e, non ultimo, per la sua intrigante bellezza. Aglaia non si era mai considerata bella, ma i tratti irregolari del viso, l’intensità degli occhi verdi smeraldo e la lunga chioma rossa sempre perfettamente acconciata, riuscivano ad accendere l’interesse degli uomini più diversi. Si era assicurata un tenore di vita che molte delle altre cortigiane oneste di Roma non avrebbero forse mai raggiunto.
Quando aveva saputo della cattura di sua madre non aveva esitato un minuto, aveva fatto preparare tre bauli, due quasi vuoti ed uno pieno di alcuni effetti personali e, accompagnata da Porzia, la sua cameriera personale, da Albrecht, una specie di guardia del corpo che la seguiva ovunque e da due servi di fiducia, era partita. Ora, seduta in quella carrozza si sentiva squarciare l’anima. Non poteva crederci. L’ultima volta che aveva incontrato donna Bellezza era stato qualche mese prima quando, triste e scoraggiata, lontana dall’unico uomo che amava, si era rifugiata nel suo abbraccio materno per scappare dal mondo, per ritrovare la forza di vivere; chissà, forse ora l’avrebbe rivista attraverso una grata e forse non avrebbe potuto nemmeno toccarla. Ma sua madre aveva bisogno della sua presenza e lei lo sapeva.
Sentiva l’anima gridare, ma non con la sua voce.

Era l’anima di Bellezza a gridare. Fin da quando l’avevano portata in quella segreta scura e maleodorante sita sotto le stanze della tortura, aveva pensato che questa volta si sarebbe compiuto il suo destino. Era ormai avanti con l’età anche se sul suo viso, sotto rughe ancora non troppo evidenti, si potevano notare i segni di una straordinaria avvenenza che non l’aveva ancora abbandonata quasi avesse per questo, fatto un patto con il demonio.
Erano stati a casa sua quel giorno ed il grande cane nero, che le faceva compagnia da molti anni, fin dal mattino si era mostrato irrequieto ringhiando e aggirandosi sospettoso in casa ed in giardino, mentre tutto intorno taceva. Il silenzio di quella mattina primaverile sembrava irreale, nessun uccello cantava, le galline nell’aia sembravano ammutolite, il gatto era sparito dalla sera precedente e persino il vento pareva essersi fermato in attesa. Solo il baritonale brontolio del cane rompeva la quiete.
Aveva tentato di immaginare quel giorno per molti anni e, pur non avendolo mai pensato a quel modo, capì immediatamente che era giunto il momento. Quella mattina si era svegliata presto, si era lavata con cura, aveva raccolto i capelli sulla nuca ed aveva indossato un sobrio abito scuro, poi si era seduta sui gradini davanti la porta di casa a filare.
D’un tratto l’aria risuonò di lugubri passi ferrosi e un piccolo drappello di soldati si fermò poco distante dalla sua casa.
Il cane nero ringhiava ferocemente.
Qualcuno diede ordine di scendere da cavallo e avvicinarsi alla casa. Il cane si avventò rabbiosamente contro due soldati, ne ferì uno e quasi uccise il secondo. Gli altri si ritrassero spaventati, gridando per tenere lontano quella bestia feroce e trascinando faticosamente i corpi dei due malcapitati nel tentativo di ritornare verso i propri cavalli.
Bellezza continuava a filare.
Una voce tuonò, i soldati tacquero immediatamente e un cavallo fu spronato al galoppo. Il cane gli si avventò contro con tutte le sue forze ma non appena gli fu vicino fu trafitto da un colpo di spada. Si rotolò a terra con un guaito ma si rialzò subito. Un secondo colpo, più forte e preciso del primo lo ferì nuovamente e questa volta non riuscì più a rialzarsi. Il cane giaceva sull’erba, coperto di sangue ma continuava a ringhiare.
Bellezza si sentì sollevare da mani robuste. Fu chiusa in una gerla di legno di faggio e in quel modo fu trasportata fino alle segrete della Rocca di Fiano Romano nelle terre degli Orsini.

Quando Aglaia arrivò davanti alla Rocca era ormai sera. La campana del paese aveva già suonato i vespri e tutto intorno era silenzio. Il palazzo che si ergeva davanti a lei era alto, imponente, tetro, quasi minaccioso, così diverso da come lo ricordava tanto che per un attimo credette d’aver sbagliato strada. Rimase immobile qualche istante poi, riconoscendo uno degli stemmi sul muro aprì la porta della carrozza.
Scese trattenendo il fiato, si aggiustò il cappuccio scuro del mantello e si diresse verso la porta principale. Camminava lentamente ma il suo incedere era sicuro e, vedendola camminare, nessuno avrebbe potuto pensare che, lungo quei pochi metri che la dividevano dall’entrata del palazzo, il suo animo fosse così tormentato da toglierle quasi il respiro. Man mano che si avvicinava, la Rocca le sembrava mutare forma fino a quando non le parve di vedere la bocca di un mostro infernale che tutto inghiotte e divora. Per un istante pensò di fuggire lontano, ma fu il pensiero di un solo istante. Continuò a camminare e si fermò davanti al portone. Bussò ripetutamente con forza. Dopo qualche minuto qualcuno andò ad aprire.
Si trattava di un giovane soldato che non poteva avere più di vent’anni. Aveva i capelli scuri ed il fisico asciutto ma sul viso si leggeva distintamente il passaggio del vaiolo.
Porzia aveva seguito la sua padrona e si era fermata poco dietro di lei. Quando il giovane si era affacciato aveva dovuto faticare per trattenere il disgusto mentre Aglaia sorrise d’un sorriso che lo fece restare senza fiato.
Lo guardava dritto in volto senza scomporsi, sorrideva, pareva non accorgersi nemmeno del suo viso orribilmente butterato. Scusandosi per l’ora tarda gli disse che aveva fatto un lungo viaggio e, dolcemente, gli chiese se fosse ancora possibile vedere una delle prigioniere.
- Mi deve scusare se insisto – disse Aglaia avvicinandosi un poco – so che probabilmente le hanno ordinato di non fare entrare nessuno ma… vorrei vedere mia madre. Le prometto che non resterò a lungo con lei, la prego…
Nessuna donna lo aveva mai guardato in quel modo. Il giovane soldato rimase incantato dalla dolcezza di quel viso e dalla forza di quello sguardo. Per la prima volta nella sua vita, si sentì attraente. Non avrebbe mai permesso che occhi come quelli si riempissero di lacrime e non seppe dire di no alla richiesta che gli era stata fatta.
Aglaia e Porzia furono accompagnate in silenzio fin alla porta della cella in cui era stata rinchiusa Bellezza ma solo Aglaia entrò nella stanza. La donna che era divenuta sua madre giaceva in un angolo e quando il soldato richiuse la porta alzò la testa e sorrise.
- Sapevo che saresti venuta – disse a voce bassissima – come è andato il viaggio?
Aglaia voleva piangere ma si trattenne.
- Non credo che questa volta riuscirò a salvarmi, – continuò Bellezza – dicono che sono una maestra di stregoneria, dicono che faccio incantesimi e malie. I miei giudici hanno paura. Gli uomini hanno sempre paura di una donna che non possono dominare, che non comprendono, che conosce cose che loro neanche possono immaginare…
- E tu? Tu hai paura mamma?
- Non so. Credo. Oggi ho sentito i gemiti dei torturati morenti. Vieni qui, fatti abbracciare.
Restarono qualche minuto strette quasi senza respirare, poi Aglaia si rese conto di percepire il battito del cuore della madre. Passava attraverso il suo corpo, pompava il suo sangue, era nel suo petto… l’unione era col mondo.
Quando sua madre si sedette nuovamente sul pagliericcio nell’angolo la piccola cella rimbombò. Il soldato batteva alla porta e quei colpi arrivarono ad Aglaia come frecce; sentì un dolore così lancinante che credette di svenire. Un attimo dopo si ritrovò fuori dalla cella, sorretta da Porzia che camminava veloce dietro al giovane butterato che, silenzioso, le riaccompagnava all’uscita.
Ormai era buio e la carrozza, ferma davanti al portone, era in attesa. Le due donne salirono velocemente e si fecero portare via. Mentre si allontanavano Aglaia si abbandonò fra le braccia della sua fedele amica e si lasciò cullare come una bambina. Nel silenzio della notte si udivano solo gli zoccoli dei cavalli.

Quando arrivarono a casa di Bellezza, poco fuori Filacciano, trovarono la porta ancora aperta. Aglaia scese dalla carrozza ed entrò; fece portare dentro le sue cose e diede ordine ad Albrecht e ai due servitori di sistemarsi nella stalla.
La casa era composta da tre stanze, nella più piccola vi era il letto ed un armadio, la stanza centrale era quella più ampia e vi si trovavano un tavolo, alcuni sgabelli, una sedia e gli arredi della cucina disposti a semicerchio intorno al fuoco. La terza stanza era chiusa da una porta pesante. Porzia non credette ai propri occhi quando, entrandovi, si ritrovò di fronte ad una specie di magazzino pieno di vasi ed alambicchi, di bizzarre boccette di vetro, di molti recipienti dalle forme e dai colori più disparati e di parecchi setacci sui quali erano state appoggiate erbe e foglie da far essiccare.
L’odore che si respirava era forte ed acre ma, stranamente, non disturbava anzi sembrava invitare ad entrare. Porzia rimase qualche istante ad osservare la sua padrona che pareva trovarsi perfettamente a suo agio fra tutte quelle stranezze.
- Guarda! Verbena, menta, ricino, belladonna, mandragola, aloe, achillea, cicuta… Mia madre ha sempre avuto la capacità di riconoscere le erbe e di saperle utilizzare. Sai, credo che abbia imparato quest’arte dai frati dell’abbazia di San Paolo dove ha trascorso un periodo da giovane. Ha insegnato qualcosa anche a me, ma non sono mai riuscita a preparare pozioni come lei! Non è meraviglioso?! … Perché me l’hanno portata via, perché…?!
Aglaia si appoggiò ad un lungo bancone sul quale erano un’infinità di cose e, finalmente, riuscì a piangere. Piangeva sommessamente poi, prese a singhiozzare. Era la prima volta che Porzia vedeva la sua padrona in quello stato. Le si avvicinò, cercò di farla rialzare per accompagnarla a letto. Era stata una giornata pesante ed aveva bisogno di riposare. Quando la toccò per aiutarla sentì un brivido; capì che la sua padrona voleva farle un dono.
Mentre l’aiutava a spogliarsi si rese conto che quella svestizione era un cerimoniale.
Le vesti scivolarono via lentamente e Aglaia rimase in piedi, nuda, nella penombra davanti al fuoco. Porzia era immobile, incantata a fissare la sua signora. La luce che veniva dal camino illuminava quel corpo chiaro, liscio e morbido, fragile all’apparenza, sul quale il continuo movimento delle ombre create dalle fiamme sembrava dipingere parole antiche e misteriose. Aglaia chiese che le fosse portato uno specchio. Porzia si diresse nella stanza delle erbe dove aveva creduto di vederne alcuni ed infatti ne trovò più di uno.
- Quello grande – le gridò la sua padrona – quello dentro la cornice di legno dorato!
Sollevando lo specchio Porzia provò una strana sensazione e non volle guardarci dentro. Aveva sempre amato gli specchi, da bambina si rifletteva ovunque, nei vetri, nelle pozzanghere lungo la strada, nell’acqua del catino, negli argenti che sua madre puliva quando era a servizio dei Colonna… Ma in quel momento non ebbe il coraggio di osservare la propria immagine riflessa col timore di scoprire qualcosa che non le sarebbe piaciuto.
Arrivata nella stanza la sua signora le fece cenno di appoggiare lo specchio sul muro di fronte al fuoco dove aveva gettato qualche erba che bruciando profumava l’aria intorpidendo i sensi. Aglaia si pose con le spalle al fuoco e, bisbigliò alcune parole poi, fissò a lungo lo specchio. Dopo alcuni brevi interminabili momenti si accasciò a terra stremata.
Porzia non disse una parola, le appoggiò un mantello di lana sulle spalle e si sedette accanto a lei. Da quel giorno avrebbe cominciato ad imparare cose che prima non avrebbe potuto nemmeno immaginare.

Aglaia si appoggiò sul letto di sua madre ma dormì pochissimo. Era molto presto quando si alzò e si diresse nella stanza in cui sua madre teneva le sue cose e che lei, fin da piccola, aveva soprannominato la «stanza delle erbe». Quando Porzia si svegliò e la raggiunse per aiutarla, Aglaia aveva già impacchettato parecchio materiale. Bisognava che tutte quelle erbe e quegli oggetti non venissero distrutti o sequestrati dalle autorità ed era necessario fare in fretta: sarebbero presto venuti a perquisire la casa. Chiusero bene tutte le boccette contenenti le erbe essiccate e gli infusi, avvolsero gli alambicchi e tutti gli oggetti fragili in pesanti panni di lana riponendoli attentamente nei due grossi bauli che Aglaia aveva portato con sé.
Le ultime cose da portare via erano vasi di terracotta scuri che si trovavano in un armadio in fondo alla stanza e che Porzia non ebbe il permesso di toccare. I due bauli che Aglaia si era portata da Roma erano ormai così pieni che, per riporre il misterioso materiale dell’armadio in qualcosa che fosse facilmente trasportabile, Porzia fu costretta a svuotare la vecchia madia di noce che si trovava in cucina.
Aglaia aveva mandato il cocchiere ed i due uomini della scorta in paese per comprare qualche vivanda ma la gente di Filacciano, che aveva già saputo dell’arrivo di Aglaia, si era rifiutata di dare loro qualsiasi cosa chiedessero. Il fornaio li aveva cacciati in malo modo, il macellaio non aveva nemmeno alzato la testa quando erano entrati nella sua bottega e nessuna delle persone che avevano incontrato aveva risposto alle loro domande. Molti non appena li vedevano cambiavano strada, qualcuno restava immobile ad osservarli ma nessuno rivolse loro la parola. Non furono serviti nemmeno all’osteria.
Sconcertati ed increduli dal comportamento di quella gente si ricordarono delle parole che Aglaia aveva detto loro: se ci fossero stati dei problemi avrebbero dovuto recarsi dall’ebreo.
Provarono a chiedere dove abitasse l’ebreo senza ottenere risposta. Avevano quasi deciso di tornare indietro quando una ragazzina, con una lunga scarmigliata chioma rossa e due grandi occhi verdi, che stava saltando a piedi nudi in una pozzanghera si avvicinò e sorrise loro. Li guardava divertita e dopo averli fissati qualche istante disse, prima che loro potessero parlare, che la casa che cercavano era l’ultima in fondo alla strada, quella più vicina alla boscaglia.
La casa dell’ebreo era piccola e ben tenuta, con un piccolo giardino pieno di rose, un orto ben curato e un vecchissimo albero di noce. Il cocchiere, Albrecht, che serviva fedelmente Aglaia ormai da molti anni, bussò alla porta. Gli aprì un uomo di una certa età, ancora vigoroso con una corta barba caprina e due vivacissimi occhi scuri. L’uomo lo fissò qualche istante poi le sue labbra si aprirono in un accattivante sorriso.
- Benvenuti – disse con fare amichevole – non vi hanno dato nulla, eh? Questi zotici non impareranno mai ad accogliere gli stranieri! Venite, ho qui un cesto già pronto, è per la piccola Aglaia, vero?
- Sì, signore – disse uno dei due uomini della scorta – la nostra padrona ci ha detto di venire da lei se avessimo avuto dei problemi con la gente del paese. Ma, signore, perché nessuno ci ha voluto ascoltare, signore?
L’ebreo allungò loro un grande cesto di vimini ricolmo di frutta, verdura, carne, uova, pane, farina, miele e qualche altra cosa e sorrise.
- Hanno paura di ciò che non capiscono, ma non vi preoccupate, la piccola Aglaia, la vostra padrona, sa come tenerli a bada. E adesso andate. Ditele che l’aspetto.
I tre uomini tornarono in fretta verso la casa di Bellezza e quando arrivarono, tutto era già pronto per essere portato via. Consegnarono il cesto, caricarono i bauli e la madia sulla carrozza e, senza aggiungere altro, si apprestarono a ripartire per Roma.
- Sai che cosa devi fare – raccomandò Aglaia al cocchiere – non fermarti fino a quando non sarete arrivati. Porta tutto nel casino di campagna che sai tu e non farne parola con nessuno. Se ti chiederanno spiegazioni dì che nei bauli ci sono alcuni dei miei abiti. Aspetta lì, presto verrà una giovane donna a reclamare le mie cose. Sii fedele a lei come lo sei stato a me. Addio.
Gli sfiorò la mano prima di rientrare in casa e guardarli partire dalla finestra, lui fu percorso da un brivido ma riuscì a dire:
- L’ebreo vi aspetta, signora.
Chiudendo la porta di casa pensò che di quell’uomo dagli occhi azzurri, trasparenti come il ghiaccio, poteva certamente fidarsi, le era fedele da sempre e non l’avrebbe mai tradita così come non avrebbe mai tradito nemmeno Lei...
Rimase sulla soglia ad osservare la carrozza che si allontanava verso il sole pensando che quella era l’ultima volta che avrebbe visto Albrecht. Era un uomo singolare, aveva un’età indefinita che forse si avvicinava a quella di sua madre, non parlava molto ma osservava ogni cosa e la seguiva ad ogni passo per essere lì a proteggerla se mai ne avesse avuto bisogno. L’aveva conosciuto quando, una notte si era rifugiato in casa sua per scappare dalle guardie. Non gli aveva mai chiesto perché lo stessero cercando. In fondo non le interessava. I suoi occhi chiari come il ghiaccio lasciavano intravedere una grande anima e questo le bastava.
Mentre la carrozza scompariva alla sua vista, una figura dai contorni sfumati si avvicinava con passo spedito.

Accanto all’uomo camminava un cavallo.
La luce del pomeriggio era molto forte ed Aglaia riconobbe chi fosse l’uomo che si dirigeva verso la sua casa solo quando fu abbastanza vicino per poterne distinguere l’andatura. Si precipitò fuori dalla porta e gli corse incontro. Non aveva avuto tempo di farsi acconciare ed i riflessi ramati della sua lunghissima chioma brillavano al sole come fiammelle.
Quando finalmente lo raggiunse si perse nel suo abbraccio. Era un uomo alto e muscoloso e la sua pelle sapeva di buono; doveva essere forte, lo sapeva, ma con Davide poteva lasciarsi andare, chiuse gli occhi e si lasciò sopraffare dalle emozioni.
- Sorellina! – le sussurrò stringendola fra le braccia – sono venuto appena ho saputo del tuo arrivo. In paese non si parla d’altro.
Erano quasi due anni che non si vedevano e l’ultima volta lui non aveva potuto andarla a trovare perché la moglie glielo aveva impedito. Era pazzesco ma la moglie di Davide, non voleva che si incontrassero, non le aveva nemmeno fatto conoscere le sue due bambine, tentando di cancellarla dalla loro vita. All’inizio Aglaia aveva pensato che non volesse a causa della sua reputazione ma poi si era resa conto che il motivo della forte gelosia della cognata erano quell’amore fraterno e quella profonda comprensione che li univa e che lei non sarebbe mai riuscita ad avere.
Davide e Aglaia non erano fratelli carnali ma la loro sintonia era sempre stata così assoluta ed incondizionata da farli sembrare addirittura gemelli. Aglaia non aveva mai visto le sue nipoti ma Bellezza le aveva raccontato che la prima era in tutto uguale a sua madre mentre la seconda, per qualche misterioso e straordinario evento, assomigliava incredibilmente proprio a lei, aveva gli stessi capelli rosso fiammante, gli stessi larghi occhi verdi e quando qualcosa la irritava assumeva la sua stessa espressione imbronciata.
Davide l’abbracciò così forte che quasi le tolse il respiro.
- So che sei già stata alla Rocca – le disse dolcemente – spero tu sia riuscita a vederla. Ho mandato qualcuno ad avvertirti appena l’hanno portata via; sapevo saresti venuta immediatamente.
Aglaia alzò la testa e lo guardò con gli occhi velati di lacrime. Sembrava una bambina.
- Ti ho portato Chirone – le sussurrò sciogliendola lentamente dal suo abbraccio – da quando te ne sei andata nessuno è riuscito a montarlo, nemmeno io. Un giorno lo stavo strigliando quando è entrata nella stalla Caterina e il cavallo si è immediatamente girato verso di lei. Si sono osservati a vicenda qualche istante poi, mia figlia mi ha chiesto di aiutarla a montarlo. Avevo paura che la disarcionasse e non volevo che lo cavalcasse ma qualcosa mi spingeva a lasciarla fare. Non volle la sella e quando gli salì in groppa Chirone non si mosse. Lo accarezzò sul collo proprio come fai tu e da allora è il suo cavallo. Ma quando le ho detto che te lo avrei portato non ha protestato.
Aglaia accarezzò il cavallo che sembrò risponderle abbassando il muso verso la sua spalla.
- Chirone non è un cavallo come gli altri, dovresti saperlo. E’ importante che l’abbia riconosciuta.
Aglaia accarezzava il suo cavallo con una delicatezza ed un’attenzione che facevano pensare alle coccole per un bimbo.
- L’hanno portata via come la peggiore delle lamie – le disse Davide destandola dai ricordi che le affollavano la mente e il cuore – l’hanno accusata di compiere malefici e di uccidere bambini, voglio chiedere al luogotenente di darmi copia degli atti che hanno compilato contro di lei. Ho imparato a leggere, sai, e a far di conto.
Era come svegliarsi all’improvviso e ritrovarsi in una realtà del tutto simile a quell’incubo che si pensava di poter allontanare con la veglia. Aglaia era come stordita ma sapeva di dover fare qualcosa. Chissà, forse qualcuna delle sue molte conoscenze avrebbe potuto aiutarla, forse era ancora in tempo perché non si avverasse la profezia che aveva visto nello specchio, forse sarebbe riuscita a salvarla.
D’un tratto si ricordò il libro di sua madre. Era il libro che raccoglieva tutta la conoscenza delle donne che l’avevano preceduta ed ora avrebbe dovuto averlo lei per conservarlo fino a quando non ci fosse stato qualcuno in grado di proseguire il loro cammino.
- Sai dove la mamma ha nascosto il Grimorio? – chiese improvvisamente a Davide – ho fatto portare vie le sue cose ma non sono riuscita a trovarlo.
Era l’unico dei suoi quattro fratelli, oltre ad Alessandro, il primogenito, con il quale poteva parlare liberamente di queste cose. Gli altri due non erano mai stati istruiti nell’arte della conoscenza delle erbe e dei molti segreti che la loro madre custodiva; Bellezza diceva che non avrebbero compreso e che avrebbero sfruttato le loro capacità per fare del male.
Non tutti avevano lo stesso padre…
Davide scosse la testa.
- No, non so dove l’abbia messo. Sai bene che l’ho visto soltanto una volta e che non ho mai potuto toccarlo. Il libro è destinato a te, alla sua unica figlia, e non può essere passato ad un uomo. Chiedi al tuo cuore di trovarlo per te: è il solo modo.

1 commento:

  1. L'arte è una gran maga! Essa crea un sole che splende per tutti come per l'altro e coloro che vi si avvicinano, anche i poveri, anche i contraffatti, anche i ridicoli gli rapiscono un po' del suo calore, un po' dei suoi raggi. Questo fuoco del cielo imprudentemente rapito, che i ratés raccolgono nel fondo delle loro pupille, li rende talvolta terribili, più spesso ridicoli; ma la loro esistenza ne ritrae una serenità grandiosa, un disprezzo del male, una grazia a soffrire sconosciuta agli altri miserabili. (Alphonse Daudet)

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se sei passato qui non è a caso; forse sei capitato per leggere qualcosa o per dirmi qualcosa: certo il perchè -sebbene al momento sia incomprensibile- in qualche modo è certamente importante per entrambi, quindi, non te ne andare senza aver lasciato una piccola orma del tuo passaggio